La sfida fra Cina e Stati Uniti in Asia si gioca in via principale nel riuscire a prendere più Stati possibili sotto la propria ala protettrice. Le sfere d’influenza cinese e statunitense si irradiano in tutto il blocco dell’Asia-Pacifico e rappresentano il perno su cui ruoterà il futuro delle relazioni internazionali per tutto ciò che concerne il blocco eurasiatico e i suoi rapporti con il continente americano. La storia degli Stati Uniti nel Pacifico è da sempre improntata a una logica espansiva. Impossibilitati a espandersi verso Est, ossia verso e oltre l’Atlantico, a causa dell’inevitabile presenza di poteri radicati in Europa e con il continente africano sotto l’egida degli Imperi coloniali, l’unica opportunità per gli Usa, dopo la conquista della California, è stata quella di aprirsi a ovest, verso il Pacifico. Questo moto di espansione statunitense è stato possibile fintanto che la Cina non ha deciso, negli ultimi anni, di uscire dalla gabbia d’oro che si era costruita in decenni (se non secoli) d’isolamento. I governi di Pechino hanno iniziato a comprendere le opportunità politiche offerte dal mercato globalizzato e che non potevano più essere un colosso economico con una geopolitica quasi impercettibile. Da questo momento, la Cina ha iniziato a comprendere che la sfera d’influenza Usa nel Pacifico e nell’Asia centrale è un vero e proprio blocco per l’espansione cinese. Gli Stati Uniti si erano creati nel tempo una cintura intorno a Pechino per cui ogni Stato rappresentava in sostanza un allato Usa e, conseguentemente, un nemico del dragone.

La Cina ha iniziato a sentire sulla propria pelle quello che per la Russia è una vera e propria caratteristica: la sindrome di accerchiamento. La Russia ha per molti anni vissuto nell’idea che un mondo ostile la stesse accerchiando. E questo è evidente quantomeno in Europa, dove la Nato ha esteso i propri confini fino alle porte di Mosca. La Cina, adesso, inizia a comprendere questa sensazione. Le basi americane sono divenute delle basi contro la Cina e i mari intorno alle sua coste hanno iniziato ad essere terreno di scontro fra una superpotenza in espansione e un’altra che cerca di contenerla, cioè fra Pechino e Washington.





linea della seta bis

Basta vedere una cartina dell’Asia per comprendere questo “strangolamento” degli Stati Uniti verso la Cina. Nel Pacifico, gli Stati Uniti hanno basi militari in Corea del Sud e Giappone e hanno sfruttato anche la minaccia della Corea del Nord per accrescere questa presenza militare. Poco più a sud del Giappone, c’è Guam, territorio amministrato dagli Usa e vera e propria portaerei geografica in un’eventuale guerra con Pechino. Seguendo la rotta verso sud, il discorso non cambia. Taiwan non può vivere senza i rapporti commerciali con la Cina, ma, allo stesso tempo, fu lì che fu indirizzata la prima telefonata di Trump in oriente, quasi a conferma dell’importanza dell’isola per entrambi gli Stati in lotta nel Pacifico. La strategia statunitense è quella di mantenere Formosa in una sorta di limbo in cui poter creare una diga fra l’isola e la Cina, evitando che quest’ultima progetti (a lungo termine) una riacquisizione o comunque un allargamento della propria influenza. Stessa cosa vale per il Vietnam, in cui gli Stati Uniti hanno iniziato a operare come partner militare negli ultimi anni anche grazie ad esercitazioni congiunte che dimostrano la volontà di collaborazione. Per quanto riguarda le Filippine, tra Manila e Pechino ci sono molti interessi confliggenti e il nuovo presidente filippino, nonostante abbia intrapreso una campagna anti-Usa, in realtà non è affatto avversario degli Stati Uniti, specialmente di Trump. Questo per due motivi: il primo è la presenza militare Usa nell’arcipelago filippino (sono cinque le basi Usa nell’arcipelago), il secondo, la presenza di gruppi jihadisti che hanno imposto il supporto americano nella lotta al terrorismo islamico. Dall’altro lato, le Filippine non possono fare a meno della Cina, con cui hanno un volume d’affari anche superiore a quello con gli Stati Uniti.

usa cina

Più a sud, l’Australia e l’Indonesia sono alleate degli Stati Uniti. L’Australia, facendo parte del blocco occidentale, partecipa attivamente alle campagne militare Usa nel mondo ed ha anche un forte coinvolgimento nella crisi coreana (non ultima la notizia che hacker di Pyongyang hanno rubato dati dell’intelligence militare di Canberra). L’Indonesia, invece, è un Paese in cui gli interessi Usa si sposano a quelli sauditi, di fatto creando uno Stato amico di Washington e di fondamentale importanza per via dello stretto di Malacca, uno dei “colli di bottiglia” attraverso cui passa buona parte del commercio cinese con il mondo. Controllare questa regione, anche instabile a causa dell’estremismo islamico e della pirateria, significa controllare il traffico commerciale cinese e (potenzialmente) riuscire a bloccarlo. A nord, il Sud est asiatico sembra ancora in una fase di limbo. Nessuno Stato può fare a meno della Cina ma nessuno può fare a meno degli Usa: un po’ come le Filippine. Il Myanmar, in questo, è esemplare.

Più a ovest, per chiudere il cerchio dello “strangolamento”, c’è l’India. L’India vive in questi anni un rapporto molto complesso con la Cina, con cui è avversaria ma con cui è anche obbligata al dialogo. Nuova Delhi partecipa al Brics, insieme a Pechino, e non può fare a meno della partnership cinese in ambito commerciale. Nello stesso tempo, gli Stati Uniti hanno capito che allearsi con l’India significa avere un gigante economico e demografico dalla propria parte e quindi porlo come spina nel fianco all’espansione di Pechino nell’oceano Indiano. E questo assume particolare importanza, soprattutto con il passaggio del Pakistan dall’alleanza con gli Stati Uniti a quella con la Cina. A conferma del fatto che dove arretra una superpotenza, ne arriva un’altra.

Infografiche di Alberto Bellotto

 

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