Dopo un’esperienza politica burrascosa finita sepolta dall’incapacità di dare agli inglesi la loro Brexit, Theresa May tornerà nella House of Commons grazie ad una rielezione, senza lode, nel collegio di Maidenhead.

Anche il suo destino, come quello degli ultimi tre primi ministri Conservatori inglesi, ha dovuto fare i conti con il controverso divorzio dal”Europa che, però, ha portato ad esiti personali molto diversi.

Nel 2016, all’indomani dal referendum, David Cameron, indicando nel voto il simbolo di una “grande festa della democrazia”, rassegnava la sue dimissioni irrevocabili e, mentre il Financial Times scriveva che il referendum era “l’atto più irresponsabile mai portato a termine da un governo britannico”, il testimone incandescente passava nelle mani di Theresa May.

Lei, convinta di poter ottenere una maggioranza forte, indispensabile per gestire con maggiore autonomia le trattative con l’Europa, nel 2017 ha indetto le elezioni anticipate che hanno segnato l’inizio inesorabile del suo declino. Una pessima gestione della campagna elettorale e il mancato conseguimento del suo obiettivo hanno costretto la sua leadership zoppa ad appoggiarsi alla stampella offerta dagli Irlandesi (DUP, Democratic Unionist Party) salvo poi crollare, di nuovo, sull’altare della Brexit.

May è stata spesso chiamata in causa nelle ultime settimane, come modello negativo da evitare, alla stregua di un terribile incubo da tenere a mente per stare alla larga da tutti gli errori commessi. Ma laddove Theresa May ha sistematicamente fallito, Boris Johnson, giocando con grande spregiudicatezza, ha vinto trasformando quel cerino che aveva bruciato i suoi ultimi predecessori nella fiamma che ha illuminato la sua campagna elettorale, prima e la sua schiacciante vittoria, dopo.

May concede l’onore delle armi

Theresa May, con 32,620 preferenze, è stata confermata nel collegio nella contea del Berkshire lasciandosi alle spalle i Liberal Democratici di Joshua Reynolds (secondi con 18,846 voti sebbene in crescita del 13,2%) e perdendo per strada 7,611 voti rispetto alla maggioranza che aveva conseguito nel 2017 (-7% per i conservatori). I laburisti, fermi al 14%  con una perdita del 5,4%, sono arrivati terzi, ma questo non sorprende dal momento che Maidenhead è località nota alle cronache per essere la sede della sinagoga dalla quale, a metà campagna elettorale, erano partiti i primi strali contro Jeremy Corbyn accusato violentemente di antisemitismo dal Rabbino Johnatan Romain che, con una lettera aperta, aveva invitato tutte le famiglie della sua comunità a non votarlo.

Ma tant’è, la regola del sistema elettorale maggioritario inglese con collegi uninominali parla chiaro: “First past the post” e Theresa May è arrivata comunque prima, dunque ha vinto e, sebbene a denti stretti, nella fredda notte elettorale tra il 12 e il 13 dicembre ha dovuto concedere l’onore delle armi a chi, incoronato a larga maggioranza, è stato confermato alla guida del Regno Unito, Boris Johnson. Ma lo ha fatto a modo suo.

“La proposta era chiara, questa volta” ha dovuto riconoscere la May spiegando che gli elettori sapevano perfettamente chi avrebbe consegnato loro la Brexit, o almeno questo prometteva di fare, subito dopo il voto. Johnson, a costo di acutizzare oltre ogni limite le già forti divisioni vive nel Paese, si è giocato il tutto e per tutto sul suo slogan diventato la sua cifra, al punto che la May, quel mantra elettorale, si è sempre guardata bene dal ripeterlo. “Get Brexit done” (Facciamo la Brexit) sono parole che non ha mai proferito.

Di più, per evitare il rischio di fuoco amico, ha aggiunto l’ex Primo Ministro, Johnson ha fatto sottoscrivere il suo accordo (deal) a tutti i candidati conservatori costretti, senza se e senza ma, ad appoggiare il suo progetto di uscita dall’Europa entro il 31 Gennaio del 2020 alle sue condizioni.

Ma non farà troppa fatica a portare a casa il risultato finale, si è tolta la soddisfazione di sottolineare Theresa May, perché il suo successore si trova in eredità il lavoro già fatto. Non è un segreto infatti che oltre il 70% dell’accordo già sottoscritto da Johnson a Bruxelles contiene i termini di quanto predisposto dalle precedenti trattative condotte da Theresa May.

Ma poco importa ormai, lei un futuro se lo è già costruito altrove riuscendo a mettere a reddito i suoi tre anni di mandato grazie ad un altro personalissimo accordo, questa volta sottoscritto in esclusiva con l’agenzia americana Washington Speakers Bureau.

Il nuovo “deal” della May

“Il suo nome è noto e rappresenta una delle figure più iconiche del nostro tempo” scrive il sito dell’agenzia che la colloca nel book dei personaggi capaci di discorsi ad alto contenuto d’ispirazione. 

La May, dunque, si offre sul mercato per distribuire perle di saggezza e visioni inedite durante incontri internazionali e meeting aziendali, davanti a chiunque sarà disposto a pagare ingaggi che arrivano a superare le 70.000 sterline; spese di viaggio escluse. 

Qualunque cifra varrà il suo “gettone”, in quanto parlamentare, Theresa May sarà tenuta a renderlo pubblico, così come ha già fatto David Cameron che, secondo quanto riportato da Bloomberg, nel 2016 grazie all’agenzia WSB ha ricevuto una parcella pari a 120.000 sterline da un’azienda americana di proprietà immobiliari per aver tenuto un discorso durato un’ora.

Sempre impeccabile in tailleur ravvivati da vistose collane e il profilo della business woman più che dello statista, la May in patria non gode di grande fama come “public speaker”. Un libro pubblicato dal Times sulla “disastrosa campagna elettorale del 2017” ne sottolinea il carattere freddo e inflessibile e il piglio decisamente poco empatico. “Leader nati come Thatcher e Blair sanno sempre trovare le parole giuste per parlare alla nazione” ha scritto lo storico Anthony Seldon. Theresa May, no. 

Ma sicuramente le troverà, quelle parole, quando verrà invitata ad intervenire in qualità di esperta di “comunicazione, leadership femminile, economia globale ed Europa”. 

Proprio quell’Europa dalla quale non è riuscita a divorziare nel nome della Brexit, arrivando a consumare la sua voce e la sua carriera politica.

La voce della May

Le cronache la ricorderanno mentre percorreva, ormai afona, la strada che separa Bruxelles da Londra dove, approdata nella sua House of Commons con faldoni di accordo, veniva puntualmente bocciata. 

Ed era stata nuovamente la voce a tradirla, due anni fa, mentre da leader dei conservatori provava a tenere il suo discorso davanti ad una platea che, più che inneggiante, risultava imbarazzata dalla sua tosse incessante. 

La voce spezzata dalle lacrime, lo scorso giugno, ha accompagnato il suo commiato dalla guida di quello stesso partito che si preparava ad incoronare Boris Johnson, colui che, un mese dopo, col piglio goffo ma assai determinato si sarebbe preso anche le chiavi di Downing Street. 

In un guizzo di ritrovata ironia, ormai proiettata verso i suoi discorsi d’ispirazione futuri, Theresa May nell’ultima apparizione in aula aveva dato voce ad un intervento tagliente. Di fronte alle ripetute bocciature incassate da Boris Johnson, anche lui impallinato nei tentativi di portare a casa la Brexit, lei sottolineò compiaciuta quella certa sensazione di “deja vu” che provava di fronte all’immagine del suo successore messo in difficoltà. Ma, fuori dalla House of Commons i numeri oggi hanno dato ragione a Johnson.

Ora, dopo aver ricevuto le raccomandazioni di ACOBA, l’ente britannico che si occupa dei più alti servitori della Corona che, a conclusione del servizio, decidono di assumere incarichi esterni, il volto della May capeggia nella home page dell’agenzia americana WSB che ne raccomanda l’ingaggio.

A lei, però, è fatto assoluto divieto per i prossimi due anni di usare informazioni riservate né tanto meno fare azione di lobbying per l’agenzia o per i suoi clienti. Tanto, c’è già chi è attivo da tempo: Tony Blair, Gordon Brown, John Major e David Cameron. Oltre agli ex primi ministri, a vantare un contratto con la famosa agenzia americana figura anche un’altra ex inquilina del Numero 10 di Downing Street; si tratta dell’ex First Lady Cherie Blair, “speaker d’ispirazione” in materia di “filantropia, Europa e politiche per l’infanzia”. 

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