La storia recente dell’Afghanistan non può essere compresa senza la decisione dell’Unione Sovietica di invaderlo e il sostegno degli americani ai mujaheddin. In quei dieci anni di guerra, tra il 1979 e il 1989, l’Unione Sovietica mostrava al mondo i limiti dell’Armata Rossa e probabilmente la fine di un’epoca, mentre gli Stati Uniti e i loro alleati, con il sostegno alla guerriglia, apriva un nuovo capitolo delle relazioni degli Usa con il mondo islamico e con tutta l’Asia. Ritiratisi dall’Afghanistan, i russi non sono mai più voluti entrare negli affari del Paese. Alle difficoltà interne dopo la caduta dell’Urss, si aggiunsero nel tempo la paura di ripetere una nuova disastrosa guerra, il disinteresse, nonché l’intervento occidentale contro i Talebani e l’inizio della lunghissima guerra che ancora oggi rende l’Afghanistan un terreno di scontro che sembra non dover mai smettere di mietere vittime.
Come scrive in una brillante analisi Dario Citati su AnalisiDifesa, nei primi anni dell’intervento occidentale in Afghanistan, la Russia di Putin ha supportato la stessa coalizione internazionale. Secondo fonti della Difesa statunitense, fino al 2012 la Russia ha reso possibile sul proprio territorio il passaggio di oltre 2.200 voli, 45.000 container e 379.000 militari. Numeri che dimostrano inequivocabilmente una collaborazione proficua fra i due poli del mondo, almeno fino all’inizio dell’era Obama. Le cose hanno iniziato a cambiare con la crisi in Siria e con la guerra civile in Ucraina: da quel momento i russi hanno deciso di interrompere l’utilizzo delle proprie basi da parte della colazione Nato. Una scelta che è andata di pari passo con un risveglio dell’interesse di Mosca per l’Afghanistan ma soprattutto per l’evoluzione del conflitto, in particolare sul fronte della presenza americana e sulla nascita di un fronte dello Stato Islamico sul territorio afghano. Una minaccia, quella dell’Isis, che ha di fatto reso quasi obbligatorio aprire canali di comunicazione molto forti tra il Cremlino e i Talebani, che rappresentano un interlocutore fondamentale per la risoluzione del conflitto in Afghanistan.
La Russia non può prescindere dall’Afghanistan per diverse ragioni. Innanzitutto, c’è un motivo di consolidamento della propria sicurezza interna, che per la Russia, come per ogni superpotenza, si tramuta spesso in intervento all’esterno. L’Afghanistan confina con il Tagikistan, alleato di Mosca e con cui condivide importantissime basi militari, ma è soprattutto un teatro di recrudescenza dell’islamismo che per la Russia è una minaccia gravissima. L’avanzata dello Stato Islamico nel Paese non è una minaccia da sottovalutare e il fatto che lo stesso Iran abbia intrecciato rapporti di collaborazione con i Talebani nonostante le violenza perpetrate da quest’ultimi ai danni delle comunità sciite, dimostra come il problema sia ben più grave di quanto possa apparire. Interessarsi all’Afghanistan significa dunque, in primo luogo, assicurarsi che il confine meridionale russo in Asia Centrale non sia messo a repentaglio dalla minaccia islamista radicale portata dalla volontà dell’Isis di fondare il suo califfato nel Khorasan dopo la disfatta in Siria e Iraq.
C’è poi una motivazione economica, che non va assolutamente sottovalutata. L’Afghanistan è passaggio obbligato per l’asse nord-sud dell’Asia Centrale. Riuscire a contenere la minaccia dell’Isis e stabilire contatti fidati con i Talebani, si traduce, per la Russia e per gli alleati asiatici, nella garanzia che si apra una fondamentale rotta commerciale che colleghi questi Stati all’oceano Indiano e al Golfo Persico, verso cui, altrimenti, non hanno sbocchi. Non è un problema minimo: l’accesso a quei due mari rappresenta l’accesso alle rotte commerciali più importanti al mondo e significa aumentare enormemente l’import-export di materie prime, di semilavorati e di prodotti finiti. Controllare il nord e il sud dell’Afghanistan in mano ai Talebani, riuscendo a mantenere rapporti di collaborazione con il governo di Kabul, significa dunque per la Russia e i suoi partner avere un’arteria commerciale e un’asse geo-economico non trascurabile.
A queste motivazioni, si aggiunge poi l’evidente importanza dello scenario bellico come ripetizione dello scontro fra strategie tra Stati Uniti e Russia. Gli Stati Uniti, soprattutto con Trump, hanno intenzione di rimettere con forza mano all’Afghanistan per chiudere definitivamente i conti con una guerra che logora le forze americane da 16 anni. Il presidente americano non si è mai dimostrato convinto dell’impegno Usa nel Paese, ma la crescita del peso politico del Pentagono nell’entourage della Casa Bianca sembra dipanare i dubbi quantomeno sulla conferma dell’impegno statunitense. La scelta di sganciare la MOAB, la famigerata Mother of All Bombs, in concomitanza con la conferenza sull’Afghanistan sponsorizzata da Mosca e cui parteciparono Afghanistan, Cina, India, Iran e Pakistan, è apparsa un messaggio chiaro su quanto il Pentagono fosse interessato a mantenere la leadership sul futuro del conflitto. La Russia ha intenzione di limitare la presenza americana presentandosi, nuovamente, in un conflitto aperto dagli Stati Uniti come potenza in grado di garantire la pacificazione delle fazioni.
In questo senso, il fatto che abbia rapporti diplomatici con Talebani e Kabul è un punto nettamente a favore di Mosca: da una parte, tutti sanno che con i Talebani si dovranno, prima o poi, fare dei compromessi; dall’altro lato, è evidente che nel medio termine il conflitto non sarà risolto, e dunque tanto vale avere un caos il più possibile gestito per non minare gli interessi russi. In tutto ciò, la Cina e l’Iran approvano questa linea politica. Entrambe vogliono stabilità nel Paese, lo Stato Islamico lontano dai propri confini e un contenimento dell’influenza statunitense. Ed è questa la grande differenza fra blocco occidentale e blocco eurasiatico: la lungimiranza. L’Occidente si sta dimostrando in questi anni come blocco in grado di produrre caos, ma di non avere una strategia a lungo termine. Russia, Cina e anche Iran, al contrario, si presentano come Stati con una visione ad ampio respiro, riuscendo a ottenere i favori dei Paesi dell’Asia e di quelli che escono da dolorosi conflitti.