L’inizio della guerra dei prezzi del petrolio tra Russia e Arabia Saudita cade in un momento estremamente delicato per l’economia mondiale, segnato dal profondo rosso di tutte le borse del pianeta e della crisi della logistica commerciale per il coronavirus, e rischia di impattare profondamente sulla contesa geopolitica ed economica per il controllo del commercio di una risorsa ancora strategica.
Il fallimento del negoziato tra l’Opec e la Russia sul controllo delle quote di produzione ha portato i Saud ad aprire le ostilità: Mosca ha fatto naufragare l’accordo triennale con Riad e la proposta di procedere a nuovi, significativi tagli alla produzione per stabilizzare i prezzi con la consapevolezza di poter vincere un eventuale braccio di ferro. Vladimir Putin, per mezzo del ministro dell’Energia Alexander Novak, potrebbe aver agito nei confronti del governo del principe saudita Mohammad bin Salman come Otto von Bismarck nei confronti di Napoleone III ai tempi del conflitto franco-prussiano del 1870: forzare la rivalità, creare il casus belli deliberatamente ma lasciare all’avversario l’onere della “dichiarazione di guerra” nella consapevolezza di poter avere, in fin dei conti, le carte in regola per prevalere.
E la dichiarazione di guerra è arrivata, puntuale, seguita dalle manovre da parte di Casa Saud, che ha buttato sul terreno tutta la spare capacity del Regno col fine di impennare l’offerta di petrolio e condurre i prezzi al tracollo. Come segnala il Financial Times, l’Arabia Saudita ha annunciato di aumentare l’offerta a “12,3 milioni di barili al giorno”, oltre la soglia di 12 milioni di barili ritenuta la massima sostenibile dagli impianti della compagnia Aramco, “un aumento più veloce ed aggressivo di quanto molti trader di petrolio avessero anticipato. Aramco ha concordato con i suoi clienti di iniziare a rifornirli a questi livelli sin dal prossimo mese”.
Mosca ha per ora annunciato che potrebbe aumentare il suo output di mezzo milione di barili al giorno, ma è fiduciosa di poter vincere la guerra dei prezzi. La situazione non è più quella del 2014-2015, quando Mosca fu colpita duramente dal tracollo dei prezzi petroliferi e dall’effetto delle sanzioni economiche che spiazzarono il rublo e misero a dura prova le sue capacità di resistenza. Rosneft è ora un attore consolidato, può permettersi un prezzo di break-even di 40 dollari al barile senza perdere e, al contempo, fa gioco di sponda con l’altro grande colosso energetico nazionale, Gazprom, attivo tra Europa, Africa ed Asia nel settore del gas naturale.
Mosca non è vincolata all’oro nero per la sua sussistenza economica, Riad ha bisogno di un prezzo compreso tra gli 80 e gli 85 dollari al barile per non andare in perdita. Scrive, a tal proposito, Eurasia, che mentre “i produttori statunitensi” di shale oil “sono ancora sul mercato” e “la Russia resiste a prezzi bassi meglio degli altri, il problema del crollo dei prezzi sembra essere tutto dei Sauditi e dai paesi con un’economia incentrata sui soli idrocarburi, a meno di una mossa “teatrale” concordata tra Mosca e Riad proprio per colpire i produttori americani”.
Eventualità difficile, quest’ultima, per quanto Mosca possa d’altro canto trovarsi nella posizione ideale per cogliere due piccioni con una fava: sfruttando le capacità di resistenza del suo sistema produttivo, infatti, può fiaccare la furia saudita e, al tempo stesso, danneggiare l’industria dello shale americano rendendola più aperta all’idea di un accordo con Rosneft. Igor Sechin, ad di Rosneft, è da tempo fautore di tale strategia a scapito dell’idea di un “Opec+” allargato a Mosca, che tirando la corda potrebbe ottenere l’obiettivo di tendere la mano ai rivali di oltre Pacifico e mettere fuori gioco, per la prima volta nella storia, Riad dalle decisioni strategiche sui mercati del petrolio.
Il confronto sarà lungo e faticoso per entrambe le parti: ma Mosca pare avvantaggiata e pronta a svelare la natura di bluff dell’operazione saudita. Certamente, nelle prossime settimane, l’unico inghippo a questa mossa potrà essere il mutare in tempesta dell’addensamento di nubi sul sistema finanziario mondiale che, del resto, la crisi del petrolio contribuisce a generare. Se ciò non accadrà, la Russia può sopportare meglio dell’Arabia Saudita una guerra di posizione per il controllo dell’oro nero.