La Cina non ha alcuna intenzione di forzare la mano su Taiwan, almeno non nell’immediato. Xi Jinping sa bene che non è ancora arrivato il momento giusto per dedicarsi interamente alla questione taiwanese. Nel caso in cui il leader cinese volesse bruciare le tappe, e agire avanti tempo per sciogliere il nodo spinoso della riunificazione di Taipei, Pechino rischierebbe di ritrovarsi coinvolta in un conflitto globale, e per di più senza praticamente possibilità di vittoria. Sia chiaro: lo spettro di una guerra continuerebbe ad aleggiare anche se Xi rispettasse la sua personalissima road map. Solo che, in quel frangente, intanto il Dragone potrebbe avere maggiori possibilità di successo, e poi l’eventualità di un confronto con gli Stati Uniti non sarebbe un epilogo scontato come, invece, lo sarebbe adesso.
Per capire che cosa ha davvero intenzione di fare la Cina con Taiwan, è necessario analizzare quanto sta accadendo al di là della Muraglia. Xi, infatti, deve fare i conti con due grandi sfide interne senza precedenti: l’ottenimento del terzo mandato quinquennale in occasione del XX Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC), in calendario il prossimo 16 ottobre, e la stabilizazzione della situazione economico-sociale del Paese, ancora alle prese con rigidissimi lockdown anti Covid e con dati economici al di sotto delle attese. Impensabile, per la Cina, avventurarsi nello Stretto di Taiwan senza prima risolvere queste criticità che, tra le altre cose, potrebbero minare qualsiasi strategia.
A meno di clamorosi stravolgimenti di fronte, dunque, difficilmente Xi accelererà su Taiwan. E per “clamorosi stravolgimenti di fronte” si intendono azzardi statunitensi. Già, perché dall’altra parte del mondo Joe Biden si gioca un’importante fetta del suo futuro politico nelle elezioni di midterm in programma a novembre, dove i Democratici rischiano di subire una cocente sconfitta. Uno dei jolly che potrebbe rianimare l’amministrazione Biden si chiama politica estera e, tolta la questione Russia-Ucraina, il tema più caldo coincide proprio con la salvaguardia della democrazia a Taiwan.
Lo scorso agosto la speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi, ha visitato Taipei e incontrato la presidente dell’isola, Tsai Ing Wen, scatenando le ire di Pechino. Che, al di là di parole durissime, non è andata oltre lo svolgimento di esercitazioni militari – per altro già pianificate – nei dintorni della “provincia ribelle”. Nelle prossime settimane gli Stati Uniti potrebbero approvare il Taiwan Policy Act, un disegno di legge che, oltre a stanziare 4,5 miliardi di dollari da destinare in finanziamenti militare a sostegno di Taipei, potrebbe elevare lo status dell’isola ad un “importante alleato non NATO”. Washington, insomma, si avvicina alle linee rosse tracciate da Pechino, stando però ben attenta a non superarle. La Cina è irritata ma, gioco forza, è costretta a temporeggiare.
- Come si è arrivati alla divisione tra Pechino e Taipei
- Il grande gioco dei chip tra gli Usa e Taiwan
- Biden vuole armare Taiwan: perché si rischia l’escalation
Lo spartiacque del Congresso
La variabile da tenere in considerazione si chiama Congresso nazionale del PCC, un appuntamento che dovrebbe incoronare Xi Jinping per la terza volta presidentissimo della Cina. Onde evitare mosse azzardate che potrebbero bruciare il vantaggio strategico cinese, Xi sta facendo di tutto affinché le turbolenze esterne non influenzino il Congresso. E la turbolenza più forte fa rima con Taiwan.
Stiamo parlando di una questione delicatissima, anche perché a Joe Biden, per i motivi sopra esposti, non resta che sfidare Pechino facendo leva su Taipei. L’attuale inquilino della Casa Bianca sa che, sventolando lo spauracchio cinese in difesa degli interessi statunitensi, repubblicani e democratici si riunirebbero dietro alla medesima causa comune. Questo contribuisce a spiegare perché Washington abbia alzato l’asticella diplomatica nello Stretto di Taiwan, a costo di provocare una reazione cinese.
La strategia di Xi appare però evidente: rispondere a parole, diffondendo anche comunicati durissimi, ma moderare le azioni concrete che potrebbero sfociare in una guerra aperta con gli Stati Uniti. Il leader cinese vuole trascinare l’ipotetico testa a testa con gli Usa a dopo il Congresso. La stessa sorte toccherà al dossier Taiwan.
- Caccia, semiconduttori e sfida tra blocchi
- La possibile reazione della Cina alla visita di Pelosi a Taiwan
- Come si è arrivati alla divisione tra Pechino e Taipei
Prima e dopo
Prima del Congresso, ovvero da qui al prossimo 16 ottobre, Xi sarà chiamato a stabilizzare l’economia interna e, fin dove possibile, stabilizzare le relazioni internazionali della Cina. Sul piano economico si sono accese spie preoccupanti. I funzionari del governo cinese hanno riconosciuto che Pechino non sarebbe stata in grado di raggiungere l’obiettivo ufficiale di crescita per il 2022 fissato al 5,5%. Stando alle stime più autorevoli, il traguardo finale dovrebbe aggirarsi attorno al 3,3%, un risultato oggettivamente discreto ma lontano da quanto si aspettavano le autorità. A luglio, inoltre, le vendite al dettaglio sono aumentate del 2,7% e non, come preventivato, del 5%. Lo stesso dicasi per la produzione industriale (3,8% contro il 4,3%) e investimenti fissi (5,7 contro 6,2). Capitolo diplomatico: la Cina eviterà lo scontro diretto con gli Stati Uniti e cercherà, semmai, di rafforzare le relazioni con i suoi vicini di casa, dalla Corea del Sud al blocco Asean.
Archiviato il Congresso, dove Xi non dovrebbe avere problemi a ottenere il terzo mandato, la Cina è pronta ad affrontare il secondo step della sua probabile road map. Dopo il 16 ottobre, il Dragone affronterà di petto il tema Stati Uniti e cambierà approccio su Taiwan, passando da un approccio difensivo ad uno prettamente offensivo. È lecito supporre che Xi possa sposare la formula “un Paese, due sistemi” e preparare le forze armate all’unificazione con Taipei, a maggior ragione se questa mossa non dovesse dare frutti sperati come successo ad Hong Kong.
A quel punto che cosa accadrà? Se Pechino non attuerà alcuna invasione, ma riuscirà a recuperare Taiwan solo con propaganda, pressione e coercizione economica, difficilmente Washington scenderà in campo. Anche in caso contrario bisognerà comunque capire quali saranno le reali intenzioni di Biden, perché, al netto di ogni dichiarazione, non è scontato che gli Usa entrino veramente in guerra per Taipei.
Certo è che, quando parliamo del “dopo Congresso”, non intendiamo indicare necessariamente l’anno in corso o il prossimo. Il post Congresso si estende nel lungo, o addirittura lunghissimo periodo. C’è chi dice che Xi possa forzare il dossier taiwanese entro il 2027, così da celebrare al meglio il 100esimo anniversario della fondazione dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese (EPL). Altri, come il presidente del Joint Chiefs of Staff, il generale Mark Milley, si aspettano un’azione cinese a cavallo tra il 2027 e il 2035, da far coincidere con la completa e definitiva modernizzazione dell’esercito. Nei prossimi 12-24 mesi, la tensione lungo lo Stretto di Taiwan potrebbe continuare a salire senza tuttavia dare vita ad una guerra aperta.