La reazione europea al golpe in Niger dello scorso 26 luglio che ha destituito il legittimo presidente Mohammed Bazoum è stata di ferma condanna, senza però che ad oggi sia stata definita, vista la fragilità del contesto nigerino e la valenza strategica del Paese del Sahel, una strategia alternativa per mediare con uno stato di fatto svantaggioso per l’Occidente. Del resto, lo scacco che i golpisti hanno dato alla missione Usa guidata dalla sottosegretaria Victoria Nuland del Dipartimento di Stato americano invita alla prudenza.
La linea del Piave dell’Europa sul Niger è però chiara e lapalissiana: nessuno spazio al riconoscimento dei golpisti nel breve periodo. L’Unione Europea ha iniziato condannando la mossa dei militari guidati dal neo-presidente ad interim Abdourahamane Tchiani e chiudendo alla collaborazione con Niamey e il nuovo regime. “Oltre alla cessazione immediata del sostegno al bilancio, tutte le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza sono sospese a tempo indeterminato con effetto immediato”, ha dichiarato a caldo l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borell. Posizione simile a quella del governo tedesco, mettendo in guardia dalle “gravi conseguenze” che deriverebbero se l’incolumità di Bazoum fosse messa a repentaglio. Durissima la reazione della Francia, che ha sospeso immediatamente gli accordi di partnership militare col Niger riconoscendo Bazoum come “unico presidente“. L’Ue a sua volta si è dichiarata “molto preoccupata” per la volontà dei golpisti di processare Bazoum per alto tradimento.
In ogni caso ad oggi l’Europa non sembra voler pensare a una forma di intervento diretto in Niger, né a sostenere l’operazione che l’Ecowas ha allo studio come extrema ratio se la sicurezza regionale dovesse deteriorarsi. Chiare in tal senso le parole del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani secondo cui un intervento “sarebbe percepito come una nuova colonizzazione”. Le preoccupazioni di Tajani riflettono la posizione del governo Meloni, espressa il 31 luglio dopo una riunione a Palazzo Chigi a cui hanno partecipato i vertici dell’esecutivo e dell’intelligence: “L’Italia auspica una soluzione negoziale della crisi e la costituzione di un governo riconosciuto dalla comunità internazionale”. La percezione è che la giunta nigerina possa restare e che, in queste condizioni, un intervento esterno potrebbe finire per creare una catastrofe nel Paese chiave per le missioni antiterrorismo europee e occidentali e per destabilizzare ulteriormente un’area già segnata dai golpe in Mali, Burkina Faso, Ciad e Sudan dell’ultimo triennio.
Roma in tal senso sta cercando di aprire a una posizione pragmatica che coniughi la soluzione della crisi nigerina con la messa in sicurezza dei militari operanti nel Paese, che è stata la priorità dell’interlocuzione avuta dal ministero della Difesa guidato da Guido Crosetto con i funzionari del nuovo regime: “Durante i colloqui è emersa chiaramente la non ostilità verso i militari italiani presenti da parte del Consiglio nazionale di salvezza della patria”, l’autoproclamato organo di transizione dei golpisti, ha dichiarato Crosetto a fine luglio. Le trecento truppe italiane in Niger svolgono una funzione di presidio contro i gruppi radicali e islamisti che già infestano il Mali e il Burkina Faso e assieme ai militari francesi e americani sono un’avanguardia della proiezione regionale dell’Occidente in una zona ove la Cina e il gruppo Wagner per conto della Russia si stanno muovendo attivamente.
La posizione italiana riflette l’attenzione che Roma ha nel tentativo di non perturbare uno scenario critico, ove il rischio di esplosione di un conflitto civile unito all’infiltrazione islamista rischia di essere una bomba sulla stabilità delle rotte migratorie, dell’equilibrio geopolitico dell’Africa subsahariana e della gestione delle critiche riserve di uranio che costituiscono l’asset chiave del Niger. “Da fonti nigerine consultate da Today.it a Niamey, il colpo di Stato sarebbe comunque una questione interna tra la lobby dell’ex presidente Mahamadou Issoufou, 71 anni, ingegnere minerario un tempo molto vicino alla Francia, e il suo delfino e successore”, Bazoum, ha scritto Fabrizio Gatti, direttore della testata, il 4 agosto scorso sottolineando dunque quanto i problemi interni del Niger possano sovrapporsi e deflagrare. Il Paese non ha una struttura di equilibri tribali critici come quella della Libia ed è molto disomogeneo nelle sue componenti, ma al contempo vive spaccature tra la capitale e le periferie, subisce le conseguenze di cambiamento climatico e desertificazione che hanno messo sotto pressione etnie come i Tuareg e i pastori Fula ed è minacciato dalla possibile infiltrazione islamista.
Il contesto di un Paese in guerra civile e assediato dalle fazioni di Isis e Al Qaeda del Sahel, nuovo santuario jihadista, è quanto di più preoccupante possa emergere dal quadro nigerino. L’attenzione italiana non è lassismo, ma timore che una mossa sbagliata o affrettata, magari un’azione unilaterale della Francia, possa creare caos. La rappresentante dell’Unione europea per il Sahel, l’ex deputata del Movimento Cinque Stelle e viceministro degli Esteri Emanuela Del Re, ha invocato a Repubblica un mix di “pressioni e sanzioni” come strategia comunitaria ottimale per forzare al dialogo i generali golpisti. A cui sbattere la porta in faccia rischia di essere però, oggigiorno, controproducente. L’Africa è un campo minato in cui bisogna districarsi. E se nella regione la priorità è evitare una nuova Libia l’approccio italiano della paziente pressione unita al mantenimento della linea della fermezza sulla presenza militare e la difesa della legittimità e dell’incolumità di Bazoum può farsi strada per garantire un dialogo attivo con una giunta non riconosciuta ma che appare restia a lasciare il potere. Evitando quel vuoto in cui potrebbero emergere attori ben peggiori dei golpisti di oggi.