“Formicai di miseria si vedono nei campi sparsi attorno alle città dell’America Latina”: la celebre frase scritta nel 1979 da Ryszard Kapuscinski, il grande reporter polacco, in La prima guerra del football e altre guerre di poveri è quanto di più attuale ci possa essere parlando dell’attuale contesto latinoamericano.

Il 2019 da brividi dell’America Latina

Le aree a sud del Rio Grande sono sempre più calde, infiammate da proteste, rivolte, tensioni sociali. Le dilaganti disuguaglianze, la povertàe le endemiche faglie nella società contribuiscono a creare un cocktail esplosivo che si è manifestato recentemente nell’ondata di proteste in Ecuador e Cile, ma anche in analoghe manifestazioni nella povera e depressa Haiti nei primi mesi del 2019.

Ma non solo: a infiammare periodicamente l’America Latina è il controverso rapporto tra i suoi popoli e la sua classe politica. Capace di produrre grandi conduttori di popolo, eccellenti tribuni, appassionati trascinatori di masse, un’idea di indipendenza nazionale e regionale che ha prodotto contesti di aggregazione come l’Alba nel “cortile di casa” degli Stati Uniti. Meno capace di costituirsi in classe dirigente continua, capace di produrre una dialettica del potere e del mondo istituzionale trasparente e efficace e di sottrarsi al potere di condizionamento, in positivo e in negativo, dei centri d’influenza tradizionali: in diversi Paesi, i finanzieri legati all’Occidente, il grande capitale fondiario e caste armate tanto disabituate a fare la guerra quanto inclini a infilarsi nei dibattiti politici interni.

La Bolivia ha recentemente offerto un esempio in tal senso, col controverso esito delle elezioni presidenziali “addomesticato”, a quanto pare, a proprio favore dal leader uscente Evo Morales. E come non parlare della lotta di potere in Venezuela tra due contendenti, uno dei quali (Nicolas Maduro) è un autocrate a capo di una cricca autoreferenziale e il cui avversario (Juan Guaidò) un usurpatore senza titoli se non il benestare di Washington? O del caso del Brasile, ove Jair Bolsonaro è giunto al potere sull’onda dell’inchiesta giudiziaria “Lava Jato” e in cui imperversano casi di proteste massicce in città come Rio de Janeiro, in cui le autorità sono accusate di un uso arbitrario della forza? O del Perù in cui la lotta di potere ha portato allo stallo istituzionale?

L’America Latina, continente troppo spesso lontano dall’attenzione mediatica quanto importante come laboratorio di certe evoluzioni sociali e politiche difficilmente osservabili in altri contesti, è viva e sempre più calda, ma intrinsecamente sempre più debole: quando, per citare Eduardo Galeano, le sue vene sono aperte si notano contraddizioni e criticità di una regione del mondo che risulta sempre più aperta alle ingerenze politiche esterne nei confronti di Paesi sempre più deboli.

Ecuador e Cile, la piazza batte l’austerità

Tra le ingerenze maggiori, sicuramente si delineano quelle dei grandi istituti finanziari sovranazionali, guidati dal Fondo Monetario Internazionale. L’Fmi ha richiesto all’Ecuador un pacchetto di riforme strutturali, taglio alla spesa pubblica e riduzione del welfare come controparte a dei prestiti, e il Paese si è rivoltato contro il Presidente Lenin Moreno. Il pacchetto di riforme 883, contenente le linee guida dell’austerità, è stato ritirato dopo durissime proteste di piazza guidate dal predecessore di Moreno, Rafael Correa.

Stesso discorso per il Cile, il cui presidente Sebastian Pinera ha accolto le richieste della piazza dopo giorni di rivolta contro la il carovita e l’austerità fiscale del governo. La decisione di aumentare il prezzo dei biglietti della metro di Santiago ha funto da materiale fissile per una rivolta generale, culminata nella dichiarazione dello stato di emergenza e in una repressione che ha prodotto oltre 20 morti. Una manifestazione da oltre un milione di persone ha invaso le piazze di Santiago il 25 ottobre scorso, spingendo Pinera a annunciare la fine dell’austerità. Il presidente ha dichiarato di voler ascoltare le voci dei protestanti presentando “una profonda agenda sociale che raccoglie molte delle lamentele più sentite dai nostri compatrioti, in modo da avanzare con urgenza e volontà verso un miglioramento delle pensioni, delle entrate dei lavoratori, verso la stabilizzazione del prezzo di servizi di base come l’elettricità, e presto vogliamo anche fare progressi sui prezzi dell’acqua e del Tag (il sistema di pedaggio autostradale, ndr)”.

Venezuela, Bolivia, Perù: poteri in bilico

Il braccio di ferro elettorale tra Morales e lo sfidante liberaldemocratico Carlos Mesa in Bolivia è solo l’ultimo di una serie di conflitti di potere apertisi in America Latina. Prima di Sucre, anche Caracas e Lima erano state scosse, rispettivamente, dal clamoroso conflitto di potere tra Juan Guaidò e Nicolas Maduro e dalla spaccatura tra presidenza e parlamento.

Molto nota è la situazione venezuelana, meno ma altrettanto delicata e bloccata quella peruviana: Martin Vizcarra, presidente di destra in carica da un anno e mezzo, deve fronteggiare la rivolta parlamentare dell’opposizione guidata dal clan dei Fujimori, guidato dalla figlia dell’ex dittatore, Keiko, che accusa il capo di Stato di voler personalizzare le alte cariche della giustizia deputate a giudicare la stessa Fujimori, coinvolta penalmente in uno scandalo di tangenti. “Nonostante crescita e stabilità economica, nel Paese le differenze di reddito tra le diverse regioni e fasce di cittadini sono clamorose, alimentando il malcontento. Vittime storiche di situazioni da medioevo sono le popolazioni originarie, sfruttate ed emarginate”, sottolinea l’Agi. Il Perù ha nel proliferare delle miniere d’oro illegali una minaccia esistenziale e simbolica alla stabilità dell’esistenza dei suoi cittadini più deboli.

Gli altri focolai

I restanti tremori che scuotono l’area latinoamericana afferiscono agli stessi sintomi. In Brasile Rio de Janeiro protesta contro la brutalità della polizia e dei paramilitari sdoganata dal governatore Wilson Witzel, causa di oltre 1.250 morti sospette da gennaio a agosto,  la maggior parte delle quali uomini, giovani, poveri e neri.

Haiti, Paese alla canna del gas, è in subbuglio contro l’endemica corruzione dei suoi governanti, mentre un fronte da tenere perennemente sott’occhio è quello del Nicaragua, in cui le proteste contro il presidente socialista Daniel Ortega si accendono e rientrano in maniera improvvisa e imprevedibile. La marcia di avvicinamento all’elezione-chiave del 2020 sarà caratterizzata dal solito canovaccio: accuse incrociate tra governo e opposizione, con il primo che denuncia strumentalizzazioni straniere e la seconda che attacca la repressione del dissenso e la corruzione del potere. Mentre tutto questo accade, il grande enigma resta quello della Colombia: si può parlare davvero di pace tre anni dopo l’accordo governo-Farc? Il perpetrarsi della guerriglia di sinistra nel Paese e la durezza di Bogotá contro i dissidenti e i protestanti campesinos rischiano di accendere un nuovo focolaio. Forse il più grave, in un’America Latina incandescente.

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