I progetti geopolitici dei due candidati principali alla presidenza degli Stati Uniti d’America rappresentano una peculiare commistione di elementi; nonostante le divergenze dei contenuti, il programma di Donald Trump e quello di Hillary Clinton sono accomunati da due elementi altamente significativi e mai sottolineati dovutamente. In primo luogo, essi sono il frutto di una mediazione tra le vedute eminentemente personali dei candidati e le linee di pensiero maggioritarie all’interno dei partiti, con una netta prevalenza, rispetto alle precedenti campagne elettorali, della prima componente. Le esperienze, le carriere e la stessa mentalità di Trump e della Clinton hanno influenzato notevolmente l’evoluzione concettuale delle proposte.LEGGI ANCHE: Chi è Hillary ClintonIl secondo elemento comune alle geopolitiche made in Trump e made in Clinton è la loro sostanziale focalizzazione sul breve periodo. In vista del voto che dovrà traghettare l’America oltre il “”secolo americano”, oltre le contraddizioni e le incertezze dell’era Obama, gli Usa si apprestano dunque ad assistere al varo di nuove dottrine geopolitiche incentrate sulla soluzione della mole di questioni internazionali, intricate e interconnesse, e di problematiche regionali affrontate oggigiorno dalla superpotenza americana piuttosto che sul varo di nuove strade maestre destinate a irreggimentare il cammino della politica estera di Washington nel lungo periodo. Tali dottrine, dunque, subiranno necessariamente aggiustamenti strutturali in corso d’opera: la loro costruzione “liquida” rappresenta un riflesso importante della complessità e dell’imprevedibilità dell’era presente, nella quale la profondità è perennemente sacrificata alle esigenze tattiche momentanee.In questa analisi sinottica delle vedute di politica estera di Trump e della Clinton si procederà in maniera incrementale: dal regionale al globale, saranno messi a confronto gli approcci proposti da Trump e dalla Clinton alle tre questioni maggiormente rilevanti sotto il profilo geopolitico. Dapprima si porranno sotto la lente d’ingrandimento le politiche mediorientali dei due candidati, studiandone le strategie riguardanti l’area maggiormente importante nella geopolitica degli Usa di oggi; in seguito, si darà spazio al confronto riguardante le proposte concernenti la dialettica di Washington con la Russia, la Cina e, più in generale, l’oramai consolidato contesto multipolare. Infine, si potrà gettare lo sguardo sul pensiero di Trump e della Clinton riguardo il ruolo degli Usa nel mondo, e dunque la loro idea sulla prospettiva futura del paese, dalla cui realisticità dipenderà l’effettiva fattibilità delle loro politiche estere. Tale settore conclusivo dell’analisi sarà il necessario punto di raccordo con il prossimo capitolo dell’analisi, nel quale si tratterà il rapporto dei due aspiranti presidenti col sistema di alleanze e accordi commerciali costruito o progettato dagli Usa, nonché degli sviluppi futuri dei rapporti tra Washington e i paesi europei dopo le elezioni dell’8 novembre.Nel turbine del caos mediorientale“Dopo quindici anni di guerre in Medio Oriente, dopo trilioni di dollari spesi e migliaia di vite perse, la situazione è peggiore di quanto sia mai stata”. Le oramai celebri dichiarazioni di Trump lasciano trasparire la forte insofferenza dimostrata dal magnate newyorkese nei confronti delle politiche mediorientali delle amministrazioni Bush ed Obama, nonché una precisa scelta d’azione: nel caso venisse eletto alla Casa Bianca, Trump si opporrebbe con ogni probabilità al varo di nuove campagne militari dispendiose e non risolutive nella regione, in special modo in Siria e Iraq; un’eccezione potrebbe essere costituita da possibili azioni sviluppate in risposta a “minacce terroristiche dirette contro gli Stati Uniti poste dall’Isis e da Al Qaeda della Penisola Araba (AQAP)”, come scritto recentemente da Richard Falk su Middle East Eye.LEGGI ANCHE: Chi è Donald TrumpIl riposizionamento di Trump, inizialmente dichiaratosi pronto a trattare con la massima durezza il sedicente Califfato, è stato reso possibile dall’evoluzione recente dello scenario mediorientale, che ha portato a una progressiva disarticolazione dell’apparato parastatale dell’Isis e a una regressione del potere militare degli uomini di Al Baghdadi.Sul piano del conflitto iracheno-siriano, invece, la Clinton ha decisamente mantenuto le posizioni assunte negli anni in cui ricopriva la carica di Segretario di Stato (2009-2012), durante i quali l’ex First Lady si era contraddistinta come vero e proprio “super-falco”, divenendo portavoce primaria di una linea apertamente interventista in campo internazionale da lei già sostenuta da membro del Senato Usa a partire del 2002, quando votò a favore della Iraqi Resolution che aprì la strada all’attacco a Saddam Hussein. Fautrice dei bombardamenti contro Gheddafi nel 2011 e aperta sostenitrice dei gruppi ribelli che avrebbero contribuito allo scoppio del conflitto civile siriano in opposizione al legittimo governo di Assad, la Clinton ha dichiarato a più riprese che in caso di elezione si adopererebbe in prima persona per porre fine al regime di Damasco ed esautorare dal potere il suo rais. Una scelta di campo del genere comporterebbe drastici e imprevedibili mutamenti nello scenario internazionale: in un frangente decisivo per la guerra civile siriana, i cui esiti sono strettamente legati all’evoluzione della battaglia di Aleppo, ribaltare completamente le carte in tavola passando alla contrapposizione frontale ed attiva del regime di Damasco rappresenterebbe per gli USA una mossa altamente azzardata, che comporterebbe l’insorgere di gravissime problematiche con Mosca e Teheran, nonché ricadute a catena nel quadro dei rapporti internazionali.LEGGI ANCHE: Clinton prepara la guerra a Russia e CinaPer quanto riguarda le relazioni statunitensi con l’Iran, le prospettive non sono delle migliori: tanto Trump quanto la Clinton, infatti, hanno apertamente osteggiato la conclusione dell’accordo diplomatico sul nucleare con la Repubblica Islamica. Ciò non rappresenta soltanto il riflesso del sentimento filoisraeliano che anima entrambi i candidati, ma è la diretta conseguenza del bilanciamento, citato in apertura, da cui traggono origine le politiche estere dei due contendenti della corsa alla Casa Bianca. Trump da un lato non solo interpreta in prima persona il sentimento anti-iraniano del Partito Repubblicano, ma approfondisce la contrapposizione col governo di Teheran alla luce della lettura in chiave economica delle questioni internazionali che in numerosi casi ha preferito adottare: l’abolizione delle sanzioni all’Iran, secondo Trump, comporterebbe una crescita dell’influenza regionale della Repubblica Islamica a scapito delle prospettive delle politiche degli Usa, dato che l’accordo avrebbe “restituito 150 miliardi di dollari all’Iran senza dare nulla a noi”.LEGGI ANCHE: Perché la Clinton odia PutinPer quanto riguarda la Clinton, è indubbio che una maggiore opposizione alle politiche del presidente siriano Assad rappresenterebbe il naturale pressupposto allo sviluppo di un contrasto aperto con l’Iran, grande alleato del rais di Damasco; inoltre, la vicinanza alla Clinton di numerosi esperti di politica internazionale appartenenti allo schieramento neoconservatore, tra cui si segnala l’acceso militarista Robert Kagen, nonché la sintonia dell’ex First Lady con i più alti esponenti dell’establishment dell’Arabia Saudita, acerrimo rivale di Teheran, rappresentano ulteriori indizi di un possibile, drastico peggioramento delle relazioni iraniano-statunitensi a seguito di una vittoria elettorale della Clinton. In ogni caso, una dei pochi lasciti positivi della politica estera di Obama rischia di essere messo seriamente in discussione dopo l’8 novembre, principalmente a causa dell’eccessiva focalizzazione sul breve periodo, tanto in senso retrospettivo quanto in senso programmativo, delle politiche estere dei due contendenti, che preferiscono guardare al significato di breve periodo dell’accordo con Teheran senza considerarne i potenziali effetti positivi per la stabilità regionale nel lungo periodo.Il nuovo corso degli Usa nel mondo multipolareDopo l’8 novembre, come più volte ribadito da Gli Occhi della Guerra, gli Stati Uniti dovranno obbligatoriamente cambiare il proprio registro in politica estera e adattare le proprie strategie geopolitiche al mutato corso degli eventi. Nonostante sia stato avviato solamente venticinque anni fa, il progetto del “nuovo Secolo Americano” basato sul parallelo progresso della globalizzazione neoliberista e dell’instaurazione di un sistema internazionale monopolare incentrato su Washington e sulla superpotenza statunitense è già stato archiviato dalla Storia, dall’accavallarsi di turbolente evoluzioni della geopolitica planetaria, crisi economiche e negazioni dei presupposti strategici che ne stavano alla base verificatosi nell’ultimo decennio.LEGGI ANCHE: “Trump e Libia? Prospettive desolanti” Il passaggio dal monopolarismo al multipolarismo pone agli Stati Uniti la necessità di riformulare i propri approcci nei confronti delle principali potenze planetarie, prime fra tutte la Russia e la Cina, andando oltre una concezione dei rapporti di forza internazionali oramai decisamente superata e, tuttavia, largamente applicata durante i due mandati di Obama. Trump e la Clinton hanno a più riprese espresso dichiarazioni sulle loro concezioni riguardanti il nuovo ordine planetario multipolare e le loro opinioni circa le politiche da applicare verso Mosca, qualificatasi come principale rivale strategico di Washington negli ultimi anni, e Pechino, rivelatasi al tempo stesso un imprescindibile partner commerciale e un avversario geopolitico nell’area pacifica.Trump non ha mai nascosto la propria ammirazione personale nei confronti di Vladimir Putin. Andando apertamente controcorrente rispetto allo stucchevole mantra russofobo dominante su numerose testate giornalistiche statunitensi (con l’immancabile New York Times in prima fila), egli ha più volte espresso i suoi propositi di spendersi in prima persona per una normalizzazione delle relazioni tra la Casa Bianca e il Cremlino, per un superamento dell’aspra contrapposizione geopolitica con la Russia e per l’instaurazione di una sorta di entente cordiale tra le due nazioni. Con le sue dichiarazioni, Trump di fatto riconosce alla Russia il ruolo di grande potenza da essa nuovamente riacquisito nel corso dell’ultimo decennio e la dimensione di interlocutore di primaria importanza; vista l’elevato numero di questioni in gioco, in ogni caso Trump non ha stabilito una road map precisa per l’appianamento dei contrasti con Mosca, e nel concreto il riavvicinamento reciproco che seguirebbe a un’eventuale vittoria di Trump rappresenterebbe il frutto di un processo delicato, la meta di un percorso tortuoso.LEGGI ANCHE: Gli Usa si spaccano sulla Siria Per quanto concerne la Cina, invece, Trump è sicuramente meno flessibile. La sua personale concezione altamente “imprenditoriale” dell’azione politica, la sua politica macroeconomica, pilastro fondante di una campagna ispirata dal motto “Make America Great Again!” e una serie di fattori contingenti hanno spinto il tycoon newyorkese e il Partito Repubblicano ad inaugurare una politica di forte contrapposizione con la Repubblica Popolare sotto il profilo industriale e commerciale.Nei progetti di Trump, infatti, la Cina è considerata un’importante rivale sul piano strategico: programmando di riportare all’interno degli Usa la produzione manifatturiera delocalizzatasi negli ultimi decenni e interpretando essenzialmente in chiave economica la “grandezza” americana da lui ricercata, Trump non ha nascosto a più riprese di vedere nella Cina la maggiore avversaria della politica internazionale Usa negli anni a venire. Nella sua analisi forse parziale sotto numerosi punti di vista, tuttavia, si può leggere un implicito riconoscimento del nuovo equilibrio internazionale multipolare: il timore della potenza cinese e le proposte di un riavvicinamento alla Russia riflettono una visione del mondo in cui si ammette la presenza di attori di importanza paragonabile a quella degli Stati Uniti e, al di là della natura delle relazioni proposte nei loro confronti, una dignità di potenza che dimostra l’accettazione dell’oramai consolidato sistema multipolare con cui gli USA si trovano a dover fare i conti.La Clinton, invece, forse anche a causa della presenza massiccia di esponenti neoconservatori all’interno del suo entourage o della grande generosità dei contributi ricevuti dal complesso militare-industriale, appare sicuramente più ancorata a una concezione “vecchio stampo” della geopolitica statunitense. Sulla scia dei comportamenti tenuti al Dipartimento di Stato, Hillary si ripropone di agire nella direzione dell’enforcement della potenza statunitense e concepisce una strategia internazionale aggregata nella quale ai principali interlocutori degli Usa di oggi non è assegnata l’importanza che essi meritano. La Clinton, in sostanza, sta sviluppando strategie monopolari nel pieno dell’ascesa del multipolarismo: le sue recenti dichiarazioni ostili alla Cina, pronunciate in seguito all’escalation della tensione nella penisola coreana, e l’espressa volontà di un rafforzamento della posizione militare degli Usa nel Pacifico Occidentale, linea di faglia tra le contrapposte strategie geopolitiche di Pechino e Washington, si accompagnano alle oramai ricorrenti esternazioni antirusse della candidata del Partito Democratico. La recente polemica scatenata dai sostenitori della Clinton contro la Russia di Putin, accusata senza prove tangibili di aver violato i server del Partito Democratico poco prima della sua convention, è stata la più eloquente rappresentazione della volontà di una contrapposizione più decisa alle prospettive geopolitiche di Mosca. Sotto questo punto di vista, dunque, la Clinton mostra chiaramente quale sia il suo pensiero: l’ex First Lady propugna un deciso contenimento delle strategie delle due principali potenze concorrenti degli Stati Uniti, che sostanzialmente non vengono viste come paritarie agli Usa sotto il profilo politico, economico, diplomatico e militare. Precise scelte di campo riguardo alla relazione tra gli Usa e le principali potenze planetarie nel sistema internazionale non possono non avere ripercussioni sulla concezione generale dei due candidati riguardo il ruolo degli Usa nel mondo negli anni a venire: nell’ultima parte di questo capitolo, proprio questa importante questione che travalica le dimensioni.Ripiegamento espansivo contro globalismo ramificatoParadigmi della moderna geopolitica, la questione mediorientale e i rapporti tra gli Usa e le altre grandi potenze internazionali rappresentano piattaforme di confronto ideale per le diverse concezioni in termini di politica estera di Donald Trump e Hillary Clinton. Concludendo il raffronto, è utile analizzare dall’alto il perimetro entro cui i due candidati alla Casa Bianca si muovono per individuare le concezioni di fondo animanti la loro visione delle questioni internazionali.Si è impropriamente parlato di “isolazionismo” in riferimento alla geopolitica made in Trump.Tale termine, retaggio di un periodo passato, non può non definire in modo fuorviante l’approccio del tycoon newyorkese alla politica estera, dato che al tempo stesso sarebbe impossibile per gli Usa di oggi tornare a condurre politiche isolazionistiche nel mondo globalizzato e interconnesso di oggi ed è sostanzialmente riduzionistico rubricare in tal modo una gamma di pensieri decisamente più complessa. Trump prevede senza dubbio una riqualificazione degli obiettivi e della presenza attiva degli Usa in varie aree del mondo, ma al tempo stesso interpreta ogni “ripiegamento” in chiave “espansiva”: nella geopolitica made in Trump, infatti, ogni azione si ripropone di rispondere al motto Make America Great Again!, ed è pertanto da interpretare in relazione alle possibili ricadute funzionali sul complesso della potenza americana. Lo stesso si può dire dell’approccio fondato sui problemi economici della politica estera di Trump: egli punta infatti a incentivare le prospettive globali degli Usa facendo conto sulle potenzialità del loro sistema economico, e vede come diretti e principali concorrenti i paesi che minacciano gli interessi Usa sul piano degli scambi commerciali.LEGGI ANCHE: Queste pazze presidenziali “Globalismo ramificato” è invece la definizione più ampia nella quale si possa inquadrare la geopolitica made in Clinton. Elaborando le potenziali risposte della sua amministrazione alle questioni odierne di politica internazionale, l’ex First Lady si mantiene fedele a una linea di pensiero decisamente ortodossa, propugnante un mantenimento della potenza statunitense ai suoi massimi livelli di sviluppo e tensione in tutte le regioni strategicamente più importanti del pianeta. Da vero “falco” qual è, la Clinton interpreta tale mantenimento in senso elastico, concependo una visione dei rapporti internazionali al cui interno per gli Stati Uniti e i residui del monopolarismo vi è ancora spazio; per Hillary Clinton e gli strateghi della sua campagna elettorale, di fatto, il “Secolo Americano” è ben lontano dal terminare.Due visioni del mondo decisamente diverse, come visto, animano le concezioni geopolitiche di Donald Trump e Hillary Clinton. Il quadro sarà ancora più completo quando, con il successivo capitolo, si aggiungerà l’analisi dei loro piani riguardanti un’ulteriore, importante componente della politica estera USA: il sistema di alleanze e accordi commerciali tessuto nel corso degli anni da Washington, con un particolare occhio di riguardo alle relazioni tra gli Stati Uniti d’America e l’Europa.
Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove?
Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare?
Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.