La marcia su Mosca di Evgenij Prigožin è cominciata all’improvviso e si è conclusa nel mistero. Le ventiquattro ore più confuse e convulse della guerra in Ucraina sembravano destinate ad aprire una voragine in Russia, invece hanno determinato l’inizio della fine del re dei mercenari.

Il grande smog della disinformazione ha annebbiato la vista agli osservatori esterni, impedendogli di capire che cosa stesse accadendo e se l’apparente attendismo di Vladimir Putin fosse da interpretare come paziente strategia oppure come paralizzante paura.

Sulle nostre colonne avevamo azzardato un’ipotesi: che l’immobilismo di Putin fosse parte di una strategia ispirata dalle lezioni del tentato golpe militare in Turchia del luglio 2016, utilizzato da Recep Tayyip Erdoğan, che della sua preparazione era al corrente, per stanare i doppiogiochisti, far uscire allo scoperto le quinte colonne e condurre un ultimo repulisti nelle stanze dei bottoni. E così è stato.

Il Wagnerazo è stato un boomerang per Prigožin e i suoi sostenitori, come evidenziato dal riavvio delle purghe in sordina – tre decessi sospetti fra il 24 giugno e il 4 luglio –, ma questo non vuol dire che il futuro del sistema costruito da Putin nel dopo-Eltsin sia stato securizzato a tempo indefinito. Perché la più grande paura dei siloviki è, dal dopo-Wagnerazo, più sentita che mai: un ritorno al 1917.

Kornilov, il “Prigozhin prima di Prigozhin”

Russia, agosto 1917. È passato un mese dalla tre giorni di violenze di luglio, che ha messo a dura prova l’ordine pubblico, gli oneri della guerra hanno affossato gli indici economici e sociali, l’insurrezione bolscevica di Lenin va aggravandosi ed espandendosi col passare del tempo, Nicola II è apaticamente assente, la rovina è all’orizzonte.

Mancano due mesi alla Rivoluzione che cambierà il Novecento, esito imprevisto (oppure no?) di una macchinazione tedesca, e soltanto un pugno di persone, esterne alla cerchia zarista, sembra avere contezza e consapevolezza del destino a cui sta andando incontro la Russia. Uno dei pochi avveduti si chiama Lavr Kornilov, comandante in capo dell’Esercito, ed è pronto a sfidare lo Zar pur di salvare la Russia.

Kornilov era uno dei più grandi detrattori della linea politica dello Zar. Non voleva che la Russia si ritirasse dalla guerra, ma che la combattesse in modo adeguato – più armi, più punizioni per ammutinati e indisciplinati. E chiedeva a gran voce allo Zar di prendere sul serio la minaccia bolscevica. Sul finire di agosto, preso atto che entrambe le richieste erano state ignorate, avrebbe radunato un manipolo di soldati e si sarebbe messo in marcia sulla capitale.

Il piano di Kornilov, per vincere la guerra ed evitare la rivoluzione in casa, consisteva nell’entrare nella capitale, che all’epoca era Pietrogrado, per eliminare i neonati Soviet, imporre un cambio di regia al Ministero della Guerra retto da Aleksandr Kerenskij e innescare un rimpasto agli alti livelli.



Kornilov godeva del supporto morale – e, sembra, persino militare – di Londra, che da tempo aveva infiltrato degli agenti nella Russia zarista per controbilanciare le operazioni destabilizzative del Kaiser, e si sarebbe messo in marcia nonostante l’ultimatum di Kerenskij. Era il 27 agosto.

I Soviet reagirono alla notizia della marcia su Pietrogrado armandosi e preparando barricate, coordinati nell’organizzazione della resistenza da un rivoluzionario di nome Lev Trockij. Era tutto pronto per la battaglia. Ma nessun combattimento avrebbe avuto luogo. Gli ammutinati, debilitati dagli scontri con le truppe regolari e i bolscevichi lungo il tragitto per Pietrogrado, non arrivarono mai alla capitale.

Kornilov voleva salvare la Russia, ma il tentato putsch avrebbe avuto l’effetto opposto: l’arrivo accelerato della Rivoluzione. Il grande smog della disinformazione impedì all’epoca e impedisce tutt’oggi agli storici di capire i retroscena e di individuare tutti gli attori coinvolti nel tentato putsch di Kornilov, le cui reali ragioni dell’imprevedibile epilogo restano avvolte dal mistero.

Centosei anni dopo, nel 2023, qualcun altro ha ripercorso le orme di Kornilov, Evgenij Prigožin, più o meno per gli stessi motivi – disaccordi con la Difesa – e in un contesto simile – una guerra –, mancando anch’egli l’obiettivo di entrare nella capitale. Ed è la paura del ripetersi dell’epilogo del precedente storico, il collasso del sistema, che nei giorni del Wagnerazo spinse Putin a dichiarare che non avrebbe permesso “un ritorno della Russia al 1917”.

La maledizione dell’eterno ritorno

1598. 1917. 1991. 1999. Quattro sono le date che hanno impresso una svolta epocale nella storia della Russia e il cui ricordo, custodito con funzione pedagogica, costituisce parte integrante della memoria collettiva e dell’identità nazionale. Quattro date che sono sinonimo di guerra civile, di disgregazione del sistema, e che rappresentano il motivo dell’intronizzazione di Putin l’ultima sera del Novecento.

Il 1598 è l’anno dell’inizio della cosiddetta Età dei torbidi (Смутное время), un periodo di interregno cominciato con la fine dei Rurikidi e terminato con l’inizio dei Romanov. Il 1917 è l’anno dell’epilogo di sangue dell’epoca zarista, la Rivoluzione russa, e dell’avvio di una guerra civile durata fino al 1923. Il 1991 è il capolinea dell’epopea sovietica e l’atto primo di un remake dell’Età dei torbidi, protagonizzato da terrorismi e secessionismi, che nel 1999 sembrava sul punto di condurre alla coriandolizzazione della Russia. Quattro date, quattro traumi, che sono l’origine e la ragione del golpe bianco di capodanno.



Le quattro date-chiave della storia della Russia sono una delle manifestazioni di quella che potrebbe essere definita la maledizione dell’anarchia ciclica, un anatema che la intrappola in un loop temporale: il riproporsi a cadenza periodica dello stesso evento. Le marce sulla capitale – Kornilov nel 1917, Prigožin nel 2023. I rivoluzionari – Pugaciòf e Lenin. I secessionisti – l’imam Șamil, lo sceicco Mansur, Șamil Basaev. I collassi sistemici – nel 1598, nel 1917, nel 1991.

Lo stato profondo intronizzò Putin sullo scanno di Russia, nel lontano 1999, per evitare che l’ultimo anno del Novecento spianasse la strada a un nuovo 1991 o, peggio ancora, a un ritorno al 1917. La marcia su Mosca, sebbene naufragata, ha reso quegli spettri più reali che mai. Perciò Putin, nel corso del Wagnerazo, dichiarava che non avrebbe permesso un nuovo 1917. E utilizzerà ogni mezzo, dal guinzagliamento dei poteri che formano il potere a una stretta simil-sovietica sull’intera società, per evitare questo ritorno al passato.

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