Mentre il lavorìo della diplomazia prosegue, sia in forma esplicita che sommersa, tra gli Stati Uniti e l’Europa splende sempre più la figura di Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Joe Biden. Il giovane advisor occupa un posto di prim’ordine nella macchina presidenziale, ruolo che fu occupato da personaggi del calibro di Henry Kissinger, Colin Powell e Condoleeza Rice: Sullivan è, ad oggi, il più giovane nel suo ruolo dagli anni Sessanta. Pur possedendo credenziali da diplomatico navigato, l’uscita rocambolesca dall’Afghanistan ha fatto vacillare la sua aura da enfant prodige a stelle e strisce: sono bastati pochi mesi, però, per tornare sulla cresta dell’onda a causa dello scoppio del conflitto in Ucraina. In queste settimane, infatti, è lui l’uomo di Washington che siede al tavolo con i cinesi, nonostante sia da sempre un falco dichiarato nei confronti di Pechino.

Chi è

Classe 1976, Sullivan è un prodotto di Yale con una breve parentesi post-laurea come avvocato e cancelliere. Ma è nel 2008 che avviene il suo debutto nella politica nazionale con il suo arruolamento nella campagna elettorale di Hillary Clinton, che lo vuole con sé per via dell’ottimo lavoro svolto presso l’ufficio della senatrice Amy Klobuchar come consulente politico senior. Pertanto, il giovane Sullivan diventa il giovane vicedirettore politico nella corsa alle primarie tra la ex first lady e l’outsider Barack Obama. Ed è proprio sul carrozzone di quest’ultimo che viene arruolato quando Clinton perde la corsa alle primarie: assieme alla grande squadra per le presidenziali 2008, Sullivan è uno degli uomini che tiene le fila, a soli 32 anni, di una campagna elettorale che resterà nella storia. Con Obama alla Casa Bianca, segue il destino di Hillary Clinton a Dipartimento di Stato. Riconquistata la Casa Bianca, l’allora Vicepresidente Biden lo nomina come Consigliere per la sicurezza nazionale personale succedendo a Anthony Blinken.

Quell’anno incoronava così quest’astro nascente delle relazioni estere americane: “Sullivan era il punto di contatto affidabile tra la Casa Bianca e il settimo piano [l’ufficio del Segretario di Stato presso il Truman Building a Washington N.d.R.] anche quando gli altri membri dello staff della Casa Bianca e dello Stato erano alla gola l’uno dell’altro”. Gli elogi in quei mesi si sprecavano, e in molti, nell’entourage democratico, erano pronti a scommettere di essere al cospetto di un futuro Presidente.

Il Jcpoa: la consacrazione

I risultati raggiunti nel sancta sanctorum della politica americana, fanno di Sullivan l’uomo del negoziato segreto con l’Iran che sfociò nel compianto Joint Comprehensive Plan of Action. L’accordo sul programma nucleare iraniano venne reso possibile da mesi di negoziati segreti tra funzionari statunitensi e iraniani, svoltisi contemporaneamente agli incontri ufficiali con le altre cinque potenze mondiali. Dal marzo 2013, Sullivan fu protagonista di almeno cinque incontri segreti, guidando un piccolo gruppo di funzionari statunitensi assieme al vicesegretario di Stato William Burns. Fu durante questo primo incontro ad alto livello in un luogo sicuro nella capitale dell’Oman, Mascate, che l’amministrazione Obama iniziò a gettare le basi per l’accordo nucleare. Inizialmente, l’obiettivo da parte di Sullivan era sondare se gli Stati Uniti e l’Iran potessero organizzare con successo un processo per il proseguimento dei colloqui bilaterali. Lo stesso canale dell’Oman era stato alimentato dal Segretario di Stato americano John Kerry, che, in qualità di presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti prima di assumere la carica di Segretario di Stato, fece un viaggio senza preavviso nello stato del Golfo per incontrare i funzionari dell’Oman.

Il 27 settembre 2013 il presidente Barack Obama avrebbe effettuato una telefonata storica al presidente iraniano, una conversazione che avrebbe dato il via alla fase pubblica dei colloqui sul nucleare tra due avversari di lunga data. Sullivan era l’uomo che “passò il numero di telefono” al presidente, dopo mesi di diplomazia segreta. Un goal anche per il suo ex mentore politico, Clinton, che per prima lo aveva assegnato a quel dossier.

Il disastro afgano

Dopo il successo iraniano Sullivan lascia i ruoli ufficiali per il suo primo amore, Yale. Nonostante ciò, continua a prendere parte ai colloqui sul nucleare, in via informale. Nell’aprile 2015, Clinton ingaggia nuovamente Sullivan come consulente politico senior: vuole il suo “analista dalla mente fredda” di sempre. Ma è Trump ad andare alla Casa Bianca. Dopo quattro anni, all’indomani della sua rocambolesca e tormentata elezione, Joe Biden riporta Sullivan nella Camelot presidenziale con il ruolo attuale. Ma nel giro di pochi mesi, come se la pandemia e l’eco di Capitol Hill non bastassero, arriva il pasticciato ritiro dall’Afganistan. Con una differenza: se Blinken era stato una presenza costante al fianco di Biden dal 2002, prima del 2020 Sullivan aveva lavorato per Biden per soli 18 mesi, sei anni prima.

La telefonata del 30 agosto al Segretario della Difesa Austin al fianco del presidente, al termine di due decenni di guerra, diventa l’unzione a closer man di Biden. L’investitura, tuttavia, si trasforma in un’arma a doppio taglio: è toccato a Sullivan, infatti, spiegare in interviste e conferenze stampa perché si stava fuggendo dall’Afghanistan e in quel modo. Quanto basta per finire sotto il fuoco incrociato dei detrattori e dell’opinione pubblica internazionale: sono in molti a chiedere la sua testa, anche fra i Dem. Il suo senior lo difende, confermandolo nel suo ruolo, dichiarando a destra e a manca che nessuno a Washington poteva prevedere che l’esercito afgano si sarebbe sciolto come neve al sole, lodando Sullivan per il coordinamento dell’evacuazione di 124.000 civili, il più grande ponte aereo civile nella storia degli Stati Uniti. Nonostante ciò, il giovane profeta del “credo che un mondo guidato dall’America sia un mondo in cui tutti finiscono per stare meglio” finisce nella polvere.

Sullivan goes to Rome

Ma dalla polvere all’altare -nuovamente-, il passo è breve. Del resto, come racconta Mark Leibovich dalle pagine del New York Times, l’America ha una passione innata per le “stelle cadute”, come questo good guy in grisaglia che suscita tra i suoi compatrioti un mix di empatia e schadenfreude. Sullivan, ormai quarantacinquenne, è l’uomo che dovrà compiere il miracolo con la Cina. Realista fin dall’inizio delle tensioni tra Ucraina e Russia, è stato profondamente convinto delle concrete possibilità che il conflitto avvenisse. Ora è a quest’uomo che tocca un ingrato doppio compito: il primo, non abbandonare l’aria da falco con Pechino. A Sullivan, convinto che la Cina fosse al corrente dei piani di Putin, è toccato ribadire ai cinesi che ci saranno gravi conseguenze per un eventuale supporto militare alla Russia o per l’aver offerto un’ancora di salvezza a Mosca dalle sanzioni economiche. Allo stesso tempo, però, è l’uomo che a Roma, il 14 marzo scorso, ha incontrato il suo omologo Yang Jiechi in un meeting durato ben sette ore. Così, sotto il sole della Caput Mundi, Sullivan viene riabilitato come giovane Kissinger che potrà sbloccare le acredini tra Stati Uniti e Cina, fiaccate dai toni di Anchorage. Di quell’incontro, ad oggi, si sa poco: se questo sia un buon segno o meno, solo le prossime settimane, o mesi, potranno dircelo. E mentre Pechino tace, su Sullivan pende un nuovo verdetto della storia.

 

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