Spostare l’attenzione su un tema militare molto sentito dall’opinione pubblica, offuscando così l’insuccesso fin qui ottenuto nel contenimento del coronavirus. Allo stesso tempo, intervenire in un’area caldissima, il Mar Cinese Meridionale, per lanciare un messaggio di forza all’elettorato e far capire alla Cina le reali intenzioni degli Stati Uniti. È questa la nuova strategia che sta utilizzando Donald Trump in Asia per conseguire due obiettivi. Il primo: recuperare i consensi persi dopo le varie gaffe rimediate in ambito sanitario dalla sua amministrazione. Il secondo: arginare l’avanzata di un nemico geopolitico diventato ormai troppo pericoloso.
Ora più che mai, a quattro mesi dalle elezioni presidenziali, Washington ha messo nel mirino l’Estremo Oriente. The Donald ha scoperto le sue carte, facendo capire che adesso il braccio di ferro tra Usa e Cina si gioca nel cortile di casa di Pechino. Stiamo parlando del principale teatro dell’espansionismo territoriale cinese, nonché bacino di ingenti riserve di idrocarburi e altre risorse naturali e snodo commerciale fondamentale attraverso cui transitano, ogni anno, merci per oltre 3 miliardi di dollari. Insomma, per Trump, da qualunque prospettiva si analizzi il dossier Mar Cinese Meridionale, c’è sempre un appiglio da sfruttare a proprio vantaggio.
Obiettivo: Mar Cinese Meridionale
Per alzare un discreto polverone a pochi passi dalle coste cinesi, gli Stati Uniti hanno due strade: affidarsi a Taiwan, la “provincia ribelle” spina nel fianco del Dragone, oppure attaccare le rivendicazioni territoriali di Pechino in quella regione definendole illegali.
Se fino a questo momento la politica estera americana nel Mar Cinese Meridionale si basava su una presenza militare secondo un’ottica di terzietà, evidenziando l’esigenza di garantire la libertà di navigazione e lo status quo tra la prima potenza asiatica e i suoi vicini, adesso il piano Usa è cambiato. Basta riascoltare le parole del segretario americano Mike Pompeo per capirlo.
“Vogliamo essere chiari: le rivendicazioni di Pechino sulle risorse offshore di gran parte del Mar Cinese Meridionale sono del tutto illegali, così come la campagna di prevaricazioni tesa ad estendere il proprio controllo su di esse”, ha dichiarato, aggiungendo che l’America rigetta qualunque diritto accampato da Pechino a più di 12 miglia nautiche dall’atollo delle Spratly, unilateralmente militarizzato dalla Cina.
Ricordiamo che negli ultimi mesi la Cina ha intensificato il proprio attivismo militare all’interno delle acque contese, approfittando della pandemia di Covid che ha limitato la capacità operativa della Marina militare Usa nell’Asia-Pacifico.
Il braccio di ferro continua
A son di dichiarazioni, esercitazioni e giochi di guerra, la temperature di queste acque è salita a dismisura fino a diventare incandescente. Difficile che possa veramente succedere qualcosa di grosso tra Cina e Stati Uniti. Eppure, sostengono molti esperti, potrebbe bastare una sola scintilla per far scoppiare un incendio irreversibile. Anche perché in campo non ci sono soltanto cinesi e americani. Ci sono altri Paesi asiatici che hanno rivendicazioni da far valere: è il caso, ad esempio, di Filippine e Vietnam, che accampano diritti sugli atolli di Spratly e Paracel e sulle risorse celate dalle acque circostanti.
In generale possiamo dire che la nuova ed esplicita presa di posizione degli Stati Uniti contro le rivendicazioni cinesi è parte di una più ampia strategia dell’amministrazione Trump tesa a intensificare le pressioni sulla Cina su più fronti, avvalendosi anche della rete di alleanze edificata da Washington sin dal Secondo dopoguerra. Dal canto loro, i cinesi hanno dichiarato che le attività americane nella regione “minano la pace e la stabilità” nel Mar Cinese Meridionale. Vedremo fin dove si spingerà Trump. Per un possibile incidente c’è tempo fino a novembre.