La formazione di governo del Brasile di Jair Bolsonaro è una compagine eterogenea che ha al suo interno numerose correnti ben distinte. Ci sono, oltre al vicepresidente Mourao, ben otto ministri militari, esponenti di una ruvida ideologia conservatrice e nazionalista; ministri e sottosegretari vicini alle Chiese evangeliche che hanno lautamente sostenuto il cattolico Bolsonaro per la sua agenda securitaria ed economica; tecnici di spicco come Sergio Moro, lo zar anticorruzione e il “trumpiano” ministro degli Esteri Araujo; liberali classici quali il ministro dell’Economia Paulo Guedes e il ministro dell’Ambiente Ricardo de Aquino Salles; esponenti della lobby agraria (i fazendeiros) come il ministro dell’Agricoltura Tereza Cristina.
Istanze diverse e potenzialmente contraddittorie dovranno essere fatte coesistere in un governo che ha come principale collante il carisma del presidente. Tuttavia, vi sono temi in cui sembra essersi registrato un allineamento notevole, dovuto alla convergenza dei vari gruppi d’interesse. Uno di questi è l’ambiente e il nuovo approccio di Brasilia alla lotta ai cambiamenti climatici.
Il governo di Bolsonaro compatto contro l’ambiente
Come sottolinea L’Indro, “come il suo omologo statunitense, il presidente brasiliano non crede nell’esistenza del riscaldamento globale e considera le restrizioni delle emissioni imposte dai trattati internazionali come una violazione della sovranità nazionale: la sua propaganda ha spesso indicato gli accordi internazionali sul clima come strumenti attraverso i quali non meglio specificati nemici della Patria mirano a rallentare la crescita economica del Brasile”. Messa da parte per ora la volontà di uscire dagli Accordi di Parigi, ma avendo ritirato la disponibilità del Brasile a ospitare la conferenza globale sul clima nel 2019, il governo di Bolsonaro è partito con un’azione netta: la soppressione del dipartimento del ministero dell’Ambiente dedicato allo studio dei cambiamenti climatici, che aveva dimensioni imponenti: 120 persone con un budget di circa 300 milioni di real, pari a poco meno di 80 milioni di dollari.
“Per comprendere meglio la portata del provvedimento bisogna un attimo ricordare il profilo di Ricardo de Aquino Salles: un avvocato 44enne che è già stato tra 2013 e 2014 segretario particolare dell’ allora governatore dello Stato di San Paolo Geraldo Alckmin, e che fu in seguito dal 2016 al 2016 segretario all’Ambiente dello stesso Stato di San Paolo”, scrive Il Foglio. “Alckmin è esponente del centrista Partito della Social Democrazia Brasiliana, ma Salles è però soprattutto il fondatore del Movimento Endireita Brasil: una entità anti-burocrazia ispirata al liberalismo classico di Mises, Hayek e Milton Friedman”. Salles e Guedes vedono nella riduzione dei vincoli ambientali per lo sfruttamento di risorse ad alto impatto ambientale (dalle foreste dell’Amazzonia ai giacimenti di petrolio ottenibile con la tecnica del fracking) una parte importante dell’agenda neoliberista su cui Bolsonaro conta per rilanciare il Paese.
Al tempo stesso, il disimpegno di Brasilia dalla tutela ambientale va incontro anche alle istanze di Araujo (secondo cui “la difesa delle mutazioni climatiche è una tattica globale per generare paura e ottenere più potere”) e solletica il palato dell’ala nazionalista, che vede con sospetto l’impegno di numerose ong e gruppi di pressione nelle regioni dell’Amazzonia abitate dai popoli indigeni, la cui demarcazione definitiva (128 i processi oggi in corso) è stata di recente trasferita, come competenza, dall’ente dedicato alla loro tutela al ministero dell’Agricoltura occupato da una fervente sostenitrice dello sfruttamento intensivo delle risorse tutelate.
Amazzonia e indigeni nel mirino
Di recente Bolsonaro ha scritto via Twitter: “Più del 15% del territorio nazionale è delimitato come terra indigena e quilombole. Meno di un milione di persone vive in questi luoghi isolati del Brasile, sfruttati e manipolati dalle ong. Integriamo insieme questi cittadini e valorizziamo tutti i brasiliani!”. Su come questa “integrazione” debba avvenire certamente gli indigeni non avranno grande voce in capitolo.
Il sottosuolo amazzonico, che secondo numerosi rilievi risulterebbe oltremodo ricco di materiali come oro, ferro, rame, tantalo, nichel e manganese, rappresenterebbe per il governo Bolsonaro un utile “salvadanaio” in cui attrarre investimenti e capitali stranieri. Al tempo stesso, le foreste vergini del “Polmone verde” del pianeta rappresentano un obiettivo dei ruralisti, tra i principali gruppi di pressione favorevoli all’agenda politica della nuova amministrazione. La corsa al landgrabbing rischia di scatenarsi in maniera intensiva, e non sono da escludere tentativi di colpi di mano simili a quello, poi sventato da un giudice federale, con cui Michel Temer nell’agosto 2017 ha provato a ottenere l’abolizione della riserva amazzonica di Renca, istituita nel 1984 al confine tra gli Stati federali di Amapa e Para su un’area di 46mila chilometri quadrati, superiore alle dimensioni della Danimarca.
Il sovranismo dei popoli indigeni
L’articolo 231 della Costituzione brasiliana del 1988 afferma che le popolazioni indigene hanno “diritti originari sulle terre che hanno tradizionalmente occupato”. Il nuovo governo, con ministri come Selles e, soprattutto, Tereza Cristina in prima fila, pare destinato a interpretare in maniera molto elastica questa prescrizione costituzionale. Survival International, l’organizzazione globale che tutela le minoranze indigene, si è dichiarata allarmata per la nuova svolta governativa, condannando la guerra all’ambiente di Bolsonaro che potrebbe mettere a rischio i destini futuri di molte popolazioni, comprese diverse tribù non ancora contattate.
Come ha scritto sul Fatto Quotidiano Stephen Corry, direttore generale di Survival International, quella del governo di Bolsonaro rischia di essere un’azione pericolosa: “È un assalto ai diritti, alle vite e ai mezzi di sussistenza dei popoli indigeni del Brasile: se le loro terre non saranno protette, rischiano il genocidio. Questo attacco ai primi popoli del Paese è anche un attacco al cuore e all’anima stessa della nazione. Il furto dei territori indigeni getta infatti le basi per la catastrofe ambientale. I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale: le prove dimostrano che sanno prendersi cura dei loro ambienti e della fauna meglio di chiunque altro”.
“Non vogliamo essere spazzati via dalle azioni di questo governo. Le nostre terre giocano un ruolo fondamentale nel preservare la biodiversità”, hanno detto gli Aruak, i Baniwa e gli Apurinã. Il vero sovranismo, in Brasile, è il loro. Mentre il governo marcia compatto sul tema dell’ambiente e punta a rompere l’equilibrio tra principio di crescita economica e necessità di tutele ambientali in un’area delicata come l’Amazzonia, diverse popolazioni arrivano a considerare a rischio la loro stessa esistenza. E questa non è una pubblicità positiva per un governo che pretende di voler cambiare il Brasile.