Uno dei motivi per i quali in Europa in tanti, a livello politico, appoggiano le proteste sorte in piazza Maidan a Kiev nel 2014 riguarda la decisione, presa dall’allora presidente ucraino Yanukovich, di aderire all’unione euroasiatica con la Russia e con altre repubbliche ex sovietiche. Da Bruxelles, così come da Berlino, da Parigi e da altre capitali europee, si dà esplicito sostegno ai manifestanti ucraini partendo dal concetto secondo cui la popolazione ha il diritto di scegliere democraticamente i trattati a cui aderire. In parole povere, l’Europa appoggia la protesta di Maidan e condanna l’allora esecutivo ucraino in quanto nessun referendum viene istituito prima di dare il via libera all’adesione di Kiev al nuovo spazio di libero scambio con la Russia. A distanza di cinque anni, è possibile vedere tanto l’ipocrisia quanto la debolezza delle posizioni politiche europee seguendo quanto oggi accade in Macedonia. Qui un referendum c’è stato, si è tenuto nello scorso mese di settembre, e gli esiti sono in contrasto con le aspettative di buona parte del vecchio continente. Ragion per cui, in barba ad ogni principio democratico tanto decantato, di quei risultati si può tranquillamente non tenere conto. 

Il parlamento di Skopje ratifica l’accordo di Prespa 

Da Bruxelles, come da Berlino, giungono parole di elogio e di sostegno al governo macedone dopo l’approvazione da parte del parlamento dell’accordo firmato con la Grecia nel giugno del 2018. Una votazione quasi drammatica, che vede le opposizioni fuori dall’aula e l’esito positivo soltanto per un singolo voto. Servono 80 voti, il governo riesce a racimolarne 81. Una differenza minima, ma che dona ugualmente il via alle modifiche costituzionali volute a seguito della firma dei patti con Atene che stabiliscono, in primo luogo, la nuova denominazione del paese: Macedonia del Nord. Un compromesso, quello trovato con il governo di Tsipras, capace per la prima volta di fare andare d’accordo le due popolazioni che condividono alcuni dei confini più caldi dell’area balcanica. Infatti, tanto in Macedonia (o Macedonia del Nord, che dir si voglia) quanto in Grecia gran parte delle due rispettive opinioni pubbliche appaiono scontente. Ciascuno ovviamente con la propria differente motivazione: i macedoni non vogliono rinunciare al proprio nome attuale, i greci non vogliono saperne di vedere un altro Stato con l’appellativo di Macedonia, sia essa identificata come “del nord” o come ex repubblica jugoslava. 

Il nodo della discordia è proprio questo: secondo i greci, gli slavi che nel 1991 costituiscono un proprio Stato nel sud dell’ex Jugoslavia, si appropriano indebitamente del nome non solo di una delle più antiche regioni greche, la Macedonia per l’appunto, ma anche della sua storia. Con Macedonia viene indicato infatti il grande impero di Alessandro Magno, uno dei punti più alti della storia ellenica. Ed il fatto che nel nuovo Stato iniziano ad erigersi statue in favore del condottiero ellenico, non va giù ai greci. Motivo per il quale da sempre Atene blocca ogni trattativa circa l’adesione di Skopje all’Ue od alla Nato. Anzi, nelle manifestazioni internazionali ed all’Onu il paese slavo è conosciuto come Fyrom (Former Yugoslav Repubblic of Macedonia). L’accordo di Prespa mira proprio a sbloccare questa situazione: in cambio della rinuncia, da parte di Skopje, alla semplice dicitura “Macedonia” e della sua pretesa ad essere unica depositaria dell’eredità storica di Alessandro Magno, la Grecia ritira ogni veto per l’adesione del paese balcanico ad Ue e Nato. 

Ad Atene già più volte, da giugno ad oggi, le piazze si riempiono di manifestanti contro questo accordo. Nell’ex repubblica jugoslava, come previsto dall’accordo di Prespa, si indice invece un referendum. La popolazione in massa diserta le urne, un segno inequivocabile dell’insoddisfazione per l’accordo con la Grecia. Solo il 36% degli elettori va a votare, tutto il resto rigetta completamente il testo firmato a Prespa. I macedoni non solo rifiutano il nuovo nome, ma anche la possibilità di entrare nell’Ue e nella Nato, come chiesto dal quesito referendario. Eppure l’iter per la ratifica dell’accordo va avanti lo stesso. Il referendum non risulta vincolante, ma i macedoni rimangono stupiti dal fatto che il parlamento nel giro di pochi mesi porta ugualmente il testo rifiutato in aula. Il resto è storia degli ultimi giorni: l’accordo con la Grecia viene approvato, la ratifica sembra una vera e propria forzatura e non solo per l’esigua maggioranza. Per garantirsi almeno questo voto di vantaggio, il premier Zaev attua delicati compromessi con gli altri partiti e, in particolare, con quelli che rappresentano la minoranza albanese. 

Questi ultimi, soprattutto con la spinta del partito Besa, riescono nell’intento di modificare il preambolo della costituzione che adesso non comprende più la parola “macedoni”. Nei Balcani simili iniziative non sono certo solo simboliche: da adesso, la “nuova” Macedonia del Nord è uno Stato in cui la componente albanese viene considerata come costitutiva della nazione al pari di quella macedone. A lungo termine, guardando alla storia recente della regione, tutto questo potrebbe far sorgere nuove tensioni. 

Gli interessi in gioco

Forzature dunque, compromessi e voti parlamentari del tutto diversi da quelli espressi tramite referendum da una popolazione che, in questi giorni, torna a protestare a Skopje contro l’accordo. Per l’Europa però, questa volta va bene così. Non ci sono violazioni di regole democratiche, anzi si appoggiano le iniziative del governo e ci si augura che ben presto le manifestazioni nel paese balcanico vengano ridimensionate. Il presidente della commissione Juncker parla di “risultato storico e significativo“, Angela Merkel si trova proprio ad Atene mentre a Skopje il parlamento raggiunge a fatica la soglia dei due terzi per far passare l’accordo. Ed anche la cancelliera, dalla capitale greca, esprime soddisfazione. Dal canto suo, il segretario della Nato Jens Stoltenberg parla di primo passo verso l’adesione di Skopje all’interno dell’alleanza atlantica. Tutti contenti dunque in Europa. Ma anche oltreoceano di certo non sembra emergere la propensione a stoppare il processo di ratifica od a parlare contro un voto parlamentare che rigetta gli esiti di quello popolare. Al contrario, la prospettiva di vedere la Macedonia dentro la Nato è un elemento importante per gli Usa: adesso il cerchio balcanico, con Skopje, si può chiudere quasi del tutto. Assicurarsi un altro paese all’interno dell’alleanza, in una regione strategica come quella dei Balcani, per Washington segna un’importante vittoria. 

Intanto ad Atene si consuma lo strappo interno alla maggioranza che sostiene il governo guidato da Tsipras. Il premier greco già dallo scorso mese di giugno presenta l’accordo di Prespa come una sua vittoria, ponendola ai suoi elettori come la più importante iniziativa di politica estera della Grecia degli ultimi anni. Ma in realtà a livello politico sta accadendo l’esatto contrario: non solo la maggior parte della popolazione ellenica non sembra accettare l’accordo, ma il suo stesso governo rischia di cadere. Nelle ultime ore sono da registrare le dimissioni di Panos Kammenos: si tratta non solo del ministro della difesa, ma anche del leader di Anel, l’alleanza dei greci indipendenti che dal 2015 costituisce la stampella dell’esecutivo di Tsipras. E questo non solo mette in crisi il governo, ma segna anche la possibilità di una bocciatura dell’accordo di Prespa da parte del parlamento di Atene. E senza ratifica greca, la forzatura attuata dal governo di Skopje potrebbe risultare vana. 

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