Il referendum costituzionale vinto a larga maggioranza ha rappresentato l’inizio della battaglia più importante per Vladimir Putin e il suo progetto strategico di lungo termine per la Russia. L’inquilino del Cremlino ha avuto il via libera a conservare il potere, in linea teorica, fino al 2036, quando avrà 84 anni. Ma piuttosto che un’attestazione di salute del progetto politico putiniano, tale scelta approvata dal referendum ne segnala la fragilità e la dipendenza dal suo padre fondatore. Così come delicata è la questione delle future rotte strategiche del Paese sotto profilo del posizionamento internazionale, della gestione delle dinamiche geopolitiche e dello sviluppo economico.

Architettura istituzionale, dinamiche economiche e dottrina geopolitica della Russia non possono che essere viste come un tutt’uno: così è e così è sempre stato in un Paese in cui, per ragioni storiche, geografiche e ideologiche, la convergenza dei poteri verso il centro è stata a lungo una necessità inderogabile.

Il rafforzamento del potere di Putin è il presupposto per consentire di gestire dalla cabina di regia del Cremlino gli sviluppi del contesto globale, che per i prossimi anni si preannunciano turbolenti. In primo luogo, i venti di recessione mondiale stanno facendo venire a galla e rischiano di esasperare le problematiche economiche e le disuguaglianze che nel ventennio putiniano non hanno mancato di accumularsi, ma sono state a lungo taciute in nome dell’aumento del benessere medio, del reddito nominale e dell’accesso ai servizi. Pur con un rublo debole e esposto alle sanzioni internazionali, la Russia ha a lungo potuto barcamenarsi col modello economico duale costituito da Putin, che all’imprenditoria privata ha affiancato un’ampia costellazione di colossi pubblici o influenzati dal potere moscovita capaci di indirizzare produzione, occupazione e investimenti in settori chiave per l’export come difesa, aerospazio, agricoltura e, soprattutto, energia.

Da almeno un paio d’anni nelle regioni periferiche dell’Oriente e nelle periferie delle grandi città serpeggia il malcontento per l’aumento del costo della vita e la crescente esclusione sociale: la riforma delle pensioni attuata in parallelo ai Mondiali di calcio del 2018 ha portato il partito di Putin, Russia Unita, a un calo nei consensi e alla perdita di diverse regioni passate all’opposizione comunista e liberaldemocratica. La fase attuale rischia di presentare una prospettiva di tracollo dell’export energetico, basato su petrolio e gas, che può mettere a nudo problematiche quali la carenza di investimenti infrastrutturali (il caso Norilsk è emblematico in tal senso) e la debolezza dei servizi in diverse regioni del Paese a causa della penuria di fondi.

E tra i settori economici l’energia è quello “geopolitico” per eccellenza. Logico dunque che a cascata queste dinamiche influsicano su un sistema internazionale sempre più competitivo in cui negli ultimi anni la Russia si è costruita un ruolo attivo, giocando attentamente da “contropiedista” tra Medio Oriente e Mediterraneo. Mosca ha rintuzzato l’offensiva politica statunitense per isolarne l’export di gas e petrolio nel contesto euroasiatico in quella che è stata definita la “guerra fredda” dell’energia, e sulla scia della partnership economica ha costruito una sinergia con la Cina che è prematuro definire “alleanza” a tutto campo.

Le conquiste politiche dell’ultimo decennio sono in larga parte connesse alla capacità di Vladimir Putin e dei suoi fedelissimi (dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov al leader di Rosneft Igor Sechin, passando per il capo di Stato maggiore Valery Gerasimov) di portare avanti una strategia geopolitica realista e di adattare l’utilizzo degli strumenti della potenza (diplomazia, influenza indiretta, impiego delle forze armate) senza sbilanciarsi eccessivamente. Un passaggio di consegne dall’attuale gruppo dirigente a un futuro complesso di potere litigioso e diviso non garantirebbe la stessa solidità in una fase in cui grandi questioni si aprono: come si deve comportare la Russia sulla scia della nascente “nuova guerra fredda” sino-statunitense? Come approcciarsi nei rapporti ai nuovi equilibri in Medio Oriente? Quale strategia adottare per trovare un modus vivendi con Unione Europea, Turchia, Iran, “terze parti” interessate dall’evoluzione del nuovo bipolarismo?

Noti a un pubblico maggiormente specialistico ma fondamentali per gli equilibri internazionali sono i temi riguardanti i trattati di deterrenza che vincolano la Russia agli Stati Uniti. Donald Trump ha già fatto carta straccia del trattato Inf Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbačëv, e rimane tutt’altro che improbabile la possibilità che Washington il prossimo inverno non rinnovi l’accordo New Start del 2010. La fine di questi accordi aumenterebbe il livello della competizione militare, anche a livello nucleare, tra le due maggiori potenze militari del pianeta. Sarà dunque fondamentale capire come Mosca completerà gli aggiornamenti della sua dottrina militare. L’ultima dottrina militare russa completa è stata resa pubblica il giorno di Natale del 2015 e la prossima dovrebbe essere completata entro il 2020: dal grado di focalizzazione su temi come le linee guida sulla cyberwarfare, l’impiego della potenza militare in teatri caldi, la spinta all’innovazione e al rafforzamento di marina e aeronautica e dalle prossime previsioni di stanziamento per il bilancio della Difesa si capirà il grado di tensione di Mosca per la conflittualità su scala globale. Che Putin non intendere cessare di scrutare dal ponte di comando: il maggior punto di forza e, al contempo, la maggiore debolezza del Paese è proprio la sua necessità di non poter fare a meno, per ora, di immaginare un “Putin per sempre“.





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