Israele ha virato decisamente a destra. E non tanto perché il Likud, il partito di centrodestra dell’ex premier (e probabile rientrante nella carica di capo dell’esecutivo) Benjamin Netanyahu è risultato il più votato nella tornata elettorale di martedì 1 novembre. Quanto invece per l’importante successo ottenuto dalle formazioni della destra religiosa. La lista del partito Sionista religioso ha ottenuto tra i 14 e i 15 seggi, un record storico. E anche le altre due storiche liste religiose, lo Shas e il Giudaismo Unito nella Torah, hanno incrementato i propri voti. Netanyahu quindi è pronto a tornare in sella. Ma dovrà adesso rendere conto in modo considerevole alla parte più a destra della sua coalizione.

Il probabile ritorno di “Bibi”

Quando nel marzo 2021 l’opposizione era riuscita a scalzare Netanyahu, il leader del Likud aveva intuito che il suo non era un addio ma un arrivederci alla guida del governo. E questo perché il cartello di partiti che ha dato fiducia al tandem Bennett-Lapid si è ritrovato unito soltanto dalla volontà di contrastare “Bibi”, come viene soprannominato l’ex premier. La coalizione nata allora è apparsa da subito molto fragile. A livello numerico, la maggioranza era di un solo deputato: 61 seggi nella Knesset (il parlamento israeliano) sui 120 complessivi. Sotto il profilo politico, la coalizione è risultata estremamente eterogenea. Era infatti composta da partiti moderati, come quelli di Yair Lapid e Benny Gantz, da formazioni di destra come Yamina, dai nazionalisti di Yisrael Beiteinu, dai Laburisti e dalla lista Meretz, storico contenitore della sinistra israeliana.

Netanyahu ha quindi atteso in questo anno la fine di quell’esperienza di governo, partendo da due punti di forza. Il primo è dato da una polarizzazione della politica israeliana attorno la sua figura: tutte le ultime elezioni si sono trasformate in uno scontro tra pro e contro Netanyahu e questo ha fatto in modo che l’ex premier rimanesse comunque il vero ago della bilancia del parlamento. Il secondo invece, riguarda l’andamento del Likud, primo partito anche nel marzo del 2021.

Nell’aprile scorso le dimissioni della deputata Idit Silman, parlamentare di Yamina, hanno fatto venire meno la risicata maggioranza del duo Bennett-Lapid, aprendo la strada al voto. Il leader del Likud ha così riunito attorno a sé il suo elettorato, chiamando a raccolta i possibili suoi alleati per un esecutivo di centrodestra. Una strategia che gli ha dato ragione. Il Likud ha ottenuto 32 seggi, attestandosi come primo partito, e gli alleati hanno ottenuto un risultato tale da garantirgli la formazione di un governo di coalizione.

Il peso dei partiti religiosi

Le liste che già alla vigilia si sono dette disponibili a governare con Netanyahu hanno ottenuto (con l’85% di sezioni scrutinate) complessivamente 33 seggi, i quali sommati ai 32 del Likud potrebbero dare vita a una maggioranza di 65 deputati su 120. Quasi un unicum nell’ultimo decennio di storia israeliana. Tra quei 35 deputati alleati di Netanyahu però potrebbero nascondersi non poche insidie. Si tratta infatti dei massimi rappresentanti dei partiti della destra religiosa.

A spiccare è soprattutto la lista Sionismo Religioso, terza assoluta con 14 seggi. Si tratta di una formazione che raggruppa il partito omonimo guidato da Bezalel Smotrich, con quello denominato Jewish Power, fondato da Itamar Ben-Gvir. Quest’ultimo, come descritto da Simona Losito su InsideOver, è considerato uno dei leader più estremisti della storia politica israeliana. Da giovane ha aderito al movimento Kach, messo al bando in Israele nel 1994 per via delle sue posizioni considerate razziste anti musulmane e di alcuni attacchi violenti contro la popolazione palestinese.

Oggi Ben-Gvir ha in parte mitigato le proprie posizioni e non è il leader della lista destinata a diventare principale spalla di Netanyahu. Ma la sua figura è emblematica per capire la direzione che potrebbe prendere la prossima coalizione di governo. Anche perché gli altri due partiti potenzialmente alleati del Likud, lo Shas e il Giudaismo Unito nella Torah, sono anch’essi storici rappresentanti della destra religiosa e hanno anche loro incrementato i voti. Il primo avrà nel nuovo parlamento 11 deputati, il secondo invece 8. A ben guardare, i 33 seggi dei partiti religiosi potrebbero rendere paradossalmente il Likud minoranza all’interno della maggioranza. Un elemento di cui Netanyahu dovrà tenere conto.

Il posizionamento di Israele

Il peso così importante dei partiti religiosi potrebbe influenzare anche la politica estera dello Stato ebraico. In particolare, sono emerse non poche diffidenze da parte palestinese circa l’esito del voto. Il premier dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese), Mohammad Shtayyeh, ha parlato di Israele come Paese sempre più estremista. A Ramallah c’è preoccupazione per il possibile ulteriore via libera ai nuovi progetti di espansione delle colonie in Cisgiordania.

C’è poi il discorso relativo agli accordi di Abramo, le intese cioè siglate dallo stesso Netanyahu nel 2020 con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti per la normalizzazione dei rapporti con i Paesi dell’area del Golfo. Governi che, in caso di crescita dell’influenza dei partiti della destra religiosa, potrebbero mettere in discussione gli accordi.