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Con il funerale della regina Elisabetta II tornano in mente le parole pronunciate dal vescovo di Annecy Claude François de Thiollaz durante le esequie del re di Sardegna Carlo Felice nel 1831: “Signori, noi oggi sotterriamo la monarchia”. Il funerale della regina del Regno Unito Elisabetta II rappresenta un momento analogo. Londra oggi seppellisce l’Impero britannico, l’idea stessa di una missione civilizzatrice su scala globale per il governo di Sua Maestà.

Nel caso di Carlo Felice, finiva il ramo principale di casa Savoia, in questo caso però la situazione è leggermente diversa, come sappiamo. Però è indubbio che se ne va l’ultima sovrana britannica ascesa al trono con l’idea di essere alla testa di un grande Impero. Impero che sappiamo essere stato, spesso, tutt’altro che civilizzatore. Difficilmente però gli analisti tendono a imputare alla regina Elisabetta delle colpe riguardanti la fase tardiva dell’imperialismo. Del resto, i poteri della monarchia erano stati ampiamente ridotti dalle riforme dei governi liberali d’inizio secolo e di fatto non poteva contrastare in nessun modo le politiche del governo conservatore di Winston Churchill e dei suoi successori.

Gli errori del passato

“Non ci sono documenti che colleghino in modo certo la regina alle violenze nei territori imperiali” ha affermato la storica Caroline Elkins in un’intervista al magazine online Vox, autrice del volume Legacy of Violence: a History of the British Empire. “Non è però questo il punto” ha affermato “i crimini di guerra commessi nel Kenya britannico venivano comunque attuati in suo nome. Era il governo di Sua Maestà quello che stava agendo, è impossibile far finta di nulla”.

Per anni gli storici britannici, primo tra tutti Hugh Trevor Roper, hanno affermato che l’impero britannico era una parziale eccezione all’andazzo violento delle altre nazioni europee. Affermazioni facilmente smentibili, anche per quanto accaduto vicino casa: in Irlanda la violenta repressione successiva alla rivolta di Pasqua del 1916 fece cambiare radicalmente idea all’opinione pubblica di Dublino. Fino al 1914 prevaleva la visione del leader dell’Irish Parliamentary Party di John Redmond: l’Irlanda avrebbe combattuto al fianco della Madrepatria la Grande Guerra per guadagnarsi un’autonomia sul modello canadese. Dopo quel momento, invece, la linea dello Sinn Fein, un repubblicanesimo indipendentista, prese il sopravvento.

Lo sgretolamento del Commonwealth

Così come si può facilmente smentire anche quanto dichiarato dalla sovrana nel suo messaggio natalizio del 1953: il “Commonwealth di oggi non assomiglia agli imperi del passato”. In quello stesso anno, il governo inviò in Kenya il generale George Erskine per schiacciare la rivolta dei Mau Mau. Di sicuro ci assomigliava ancora, come afferma lo storico Philip Murphy nel suo saggio The Empire’s New Clothes. Secondo Murphy, il Commonwealth venne utilizzato come un veicolo per mantenere l’influenza britannica nel mondo. Fino a dare un’illusione ai sostenitori del Leave nel 2016: fuori dall’Unione Europea ci sarebbe stato il Commonwealth come alternativa di libero scambio per una rinnovata vocazione globale. Cosa che non ci fu, anzi, in questo periodo, pur restando membro del Commonwealth, Barbados ha scelto la repubblica, eleggendo l’ultima governatrice Sandra Mason come prima presidente della repubblica lo scorso 20 ottobre.  E a breve potrebbe seguire anche la Giamaica.

Insomma, l’icona monarchica si è appannata per una serie di fattori anche contingenti, come lo scandalo Windrush del 2018, causato da una serie di maltrattamenti e deportazioni di cittadini britannici di origine caraibica durante il periodo di Theresa May come Home Secretary. C’è anche però un fattore più remoto, ovverosia il legame inscindibile della monarchia con una passato di schiavitù e di sfruttamento, da rimuovere al più presto. Così come l’idea repubblicana guadagna sostenitori sia in Canada sia in Australia, dove il premier laburista Anthony Albanese ha dichiarato che dopo il 2025 è in programma un referendum per decidere quale forma di Stato adottare.

Le sfide di Carlo III

Un efficace sintesi di questo sentimento è stata tracciata dallo storico britannico di origine barbadiana Richard Drayton in suo status Facebook: “La Regina Elisabetta, sia pur rispettata, è stata vista come colei che ha difeso l’eredità del passato coloniale, volente o nolente”. Sarebbe inesatto dire che nulla è stato fatto: da questo punto di vista la sua storica visita in Irlanda nel 2011 ha sanato molte storiche ferite sulla dominazione britannica nell’isola.

Per il nuovo monarca Carlo III si prospetta quindi una nuova sfida, che probabilmente inizierà nel momento stesso della cerimonia di incoronazione che avverrà il prossimo anno. Il suo annuncio di renderla più “inclusiva” vuol dire questo alla fine: non deve sembrare in nessun caso un evento che ricordi l’eredità imperiale, anche dal punto di vista della pomposità. A riconoscere questa sua sincera volontà, un’insospettabile come la premier di Barbados Mia Mottley: durante la visita avvenuta lo scorso 30 novembre sull’isola caraibico, il futuro re ha dichiarato che “le sconvolgenti atrocità della schiavitù macchieranno per sempre la nostra storia. Anche per questo Mottley ha detto che Carlo III è un “uomo in anticipo sui tempi”. Un buon auspicio per chi dovrà superare per sempre l’illusione imperiale che in un certo senso ha avvolto il regno di Elisabetta II dalla rivolta dei Mau Mau in Kenya fino alla Brexit.

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