“La monarchia reggerà finché ci sarà il consenso nell’opinione pubblica”. Ne è certo Robert Hazell, professore di Government and the Constitution presso University College di Londra e tra i curatori del report sullo stato di salute della corona inglese appena pubblicato dagli accademici e ricercatori di  UK in a Changing Europe e Constitution Unit, dal titolo The British Monarchy.

In effetti, finché non fa sfoggio di pubblico sfarzo e vive di ordinaria soap opera, la monarchia inglese è tollerata dai più e osteggiata solo da pochi, convinti, “disturbatori” di sinistra.

Ma appena si accendono i veri riflettori e si mettono da parte le beghe di letto e le faide tra parenti, allora la domanda delle domande torna ad occupare il dibattito pubblico: la monarchia inglese ha ancora senso di esistere? 

Se lo sono domandati praticamente in tutto il mondo l’anno scorso alla morte della regina Elisabetta II e se lo chiedono oggi, quando il nuovo re (ormai vecchio), sale su una carrozza d’oro, saluta i sudditi di un Paese sull’orlo della recessione e prende posto sul trono.

Per dirla con le parole della sorella, principessa Anna, che si è concessa in tv alla vigilia dell’incoronazione, “da Carlo III non c’è da aspettarsi nessuna vera sorpresa perché dopo 70 anni di preparazione e attesa, tutti sanno chi sia e cosa pensi”, ma quello a cui si potrebbe assistere è invece la definitiva archiviazione del sistema monarchico in Gran Bretagna e nel Commonwealth.

Per provare a capire come andrà si possono guardare i numeri e si devono osservare i fatti.

Nel dossier The British Monarchy, coordinato al King’s College di Londra, si legge che il tema del gradimento dei reali è stato posto per la prima volta nel 1983 e subito archiviato dopo che un buon 86% dei sudditi di sua maestà li aveva giudicati “importanti”. Il quesito torna a fare capolino nell’annus horribilis di Elisabetta II, il 1992, quello in cui crolla la facciata della perfezione e un’ondata di scandali e divorzi, con quello clamoroso di Carlo e Diana, fanno dei Windsor una famiglia imperfetta come le altre. 

Il consenso è andato via via sgretolandosi per i tempi che cambiano, per noia e insoddisfazione ma “l’effetto dei referendum, che dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno voluto la repubblica in molti paesi europei, compresa l’Italia, qui non è ancora arrivato”, chiarisce il prof Hazell. 

Dopo un lungo fine settimana di celebrazioni che ha monopolizzato l’attenzione del mondo, oggi, dire se siamo arrivati al capolinea è difficile, “la vera sfida – ci spiega il direttore del centro studi del King’s College di Londra, Anand Menon – riguarda i giovani, quelli meno convinti dell’importanza e del valore della monarchia.”

In effetti, negli ultimi tempi i sondaggi che si sono dedicati al gradimento di re e monarchia hanno dimostrato che entrambi si sostengono con un buon vento, ma sotto i 40 anni non scaldano i cuori

Il Times ha divulgato un rilievo secondo il quale Carlo III sarà un buon re per l’80% di chi ha votato (quasi 20mila lettori); ma secondo Yougov, una settimana fa, solo il 33% degli intervistati era interessato all’incoronazione lasciando il 64% nella totale indifferenza. Di questi, il 59% ha meno di 24 anni.

Eppure, ci spiega ancora il prof Hazell, per leggere questi numeri è necessario fare dei distinguo.

“Anche andando indietro di 30-40 anni i giovani avevano questo atteggiamento, però quei giovani che ora hanno 40-50 anni, oggi sono a favore della monarchia e lo stesso potrebbe succedere con quelli oggi scettici che magari cambieranno idea domani”.

“Da qui parte la sfida per Carlo III”, insiste il prof Manon che ci ricorda come fondamentali saranno le campagne sostenute dal re che, senza disturbare troppo la politica, dovrà mostrare alla Generazione Z la rilevanza della corona. A cominciare e continuando con le battaglie su clima, ambiente, per l’architettura e l’armonia.

Di più. “Anche se la fame di monarchia va calando – aggiunge Menon – dall’altra parte non si sta sviluppando un conseguente appetito per il cambiamento”. 

Insomma, il calo di consenso non ha ancora acceso la voglia di rivoluzione, ma solo scritto qualche  cartello e armato i più convinti anti monarchici che aspettano la coppia reale negli appuntamenti pubblici con qualche uovo da tirare in faccia. 

“La monarchia andrà avanti finché avrà il supporto della gente”, il prof Hazell ne è convinto perché la corona è un affare di stato e di famiglia, la “ditta”, come l’ha strutturata Elisabetta II, in fondo è sempre più snella. 

Quindi c’è futuro per la corona? “Ma sì, farne a meno sarebbe uno choc culturale per i britannici”. 

Wendie McWatters è stata una delle più vivaci protagoniste di quella che fu la swinging London degli anni ’60. A casa sua è possibile incontrare intellettuali, artisti e coloro che si guadagnarono le copertine delle riviste patinate dell’epoca. Lei, oltre agli incarichi in giro per il mondo per le Nazioni Unite e per associazioni caritatevoli inglesi, animava i party ambitissimi dei tempi d’oro del Savoy.

Ci accoglie a Londra, tra mille ricordi e tanta lucidità e ci invita a spostarci in periferia, fuori, nelle campagne e nei paesini dove il sentimento pro monarchia è solido e non è assolutamente messo in discussione. 

“In città a e palazzo è una questione politica”, sottolinea ricordando come per certa sinistra la monarchia sia sempre stato un tarlo. 

Ma non è così per le persone comuni per le quali la corona significa impero, significa l’unità della nazione di cui essere orgogliosi e fieri. 

La bandiera e il re. La corona capisce e rispecchia l’umore del paese, è un marchio identitario, una bizzarria ed un vezzo tutto inglese che fa parte della tradizione e della storia, inamovibile da sempre. Chi ha provato a cambiarla ha fallito e ci è rimasto schiacciato sotto.

Il senso del ragionamento è dunque quello di non farsi fuorviare, così come accadde nel dibattito sulla Brexit. La pancia del paese non è nei salotti, non è nei caminetti di sinistra. 

La risposta sta nelle strade dove, tantissimi si sono accampati per assicurarsi la vista migliore, anche questo è tradizione.

Volenti o nolenti, i negozianti sanno che grazie a gadget e bandierine si vende qualcosa di più a chi arriva da Nord e dal resto del mondo al richiamo dal folklore. Tutti coloro che hanno decorato terrazze e balconi, che hanno organizzato gli oltre 7000 street parties autorizzati ricordano al mondo lo spirito di unità dietro ai colori del loro sovrano, anche senza essere necessariamente monarchici. 

Nelle case britanniche, una tovaglietta, un tea, una confezione di biscotti a tema non mancano, che sia per ridere o per davvero. 

Del resto, anche il rossissimo Jeremy Corbyn si inchinò al fascino della corona indossata da Elisabetta II facendole omaggio della sua marmellata e lo stesso dicasi per l’ex sindaco di Londra, “Red Ken” Livingstone e per alcuni stretti collaboratori dei loro staff che hanno ammesso un debole verso la royal family. 

Brand Finance, la brand valuation consultancy della City, ha studiato l’impatto dei grandi eventi della monarchia stimando come i media di tutto il mondo abbiano sempre beneficiato delle adunate reali e così è stato anche per l’incoronazione. 

La Bbc, ha ricordato il prof Hazell, inizialmente non era sicura della copertura da dedicare al giubileo di Elisabetta II, poi messa davanti ai fatti e al calore che cresceva con 16.000 feste di strada pronte a dare tributo, ha modificato e adattato programmazione ed impegno.

La corona, insomma fa bene a tutti, d’altronde Carlo III è il 62 esimo re d’Inghilterra ma anche il capo di stato dei 14 paesi del Commonwealth Realm e di tutto il Commonwealth a 57. 

La sua fama ed il soft power esercitato dalla corona fanno gioco a tutti, anche al governo britannico che gli scrive i discorsi e lo manda in avanscoperta nelle missioni di moral suasion più delicate.

Attenzione, dunque a sottovalutare il potere e l’importanza del re anche perché, alla fine, conclude il prof Hazell, costa meno di un caffè all’anno per ciascun contribuente.

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