Politica /

Da Seul. L’11 agosto, secondo il calendario lunare coreano, è il Malbok, l’ultimo dei tre giorni del Boknal, i giorni del cane. Così vengono chiamate in Corea del Sud le tre giornate più calde dell’anno. Nel 2017 cadono il 12 (chobok), il 22 luglio (jungbok) e appunto l’11 agosto. In questo periodo un’antica tradizione della penisola vuole che si consumi un pasto energetico che aiuta a combattere gli effetti del caldo e dell’umidità, dando anche una bella spinta alla virilità. In coreano il piatto si chiama Bosintang: è una zuppa di verdure a base di cipolla verde, erbe aromatiche locali e carne di cane. Una prelibatezza, secondo alcuni coreani. Una vera barbarie, secondo il resto del mondo.

Ma se fino allo scorso anno a scendere in piazza per protestare erano le organizzazioni animaliste che chiedevano di porre fine all’inumana mattanza, quest’anno c’è una novità. Per la prima volta a sfilare per le vie di Seul sono stati i venditori di carne di cane. Chiedono di tutelare un business che a loro dire impiegherebbe circa un milione di persone, generando un fatturato di 2 miliardi di dollari. E invitano il governo a trovare soluzioni per un mercato che sta decisamente crollando. Non erano masse oceaniche, circa 400 secondo il quotidiano Korea Times, ma abbastanza per dire che in Corea del Sud qualcosa sta cambiando.

La questione del consumo di carne di cane nel Paese asiatico è un dibattito mediatico che va avanti da anni e aumenta di intensità ogni qual volta la Corea del Sud si appresta a ospitare un evento internazionale. Nel 2018 tra le montagne dell’ignota PyeongChang si terranno le Olimpiadi invernali e dunque la polemica cresce. Era stato così nel 1988 in occasione delle Olimpiadi, quando Seul decise di allontanare dal centro e dalle zone turistiche tutti i ristoranti autorizzati a servire carne di cane. È successo anche nel 2002, quando il Paese assieme al Giappone organizzò i Mondiali di calcio. All’epoca Blatter, presidente della Fifa, scrisse al presidente del comitato organizzatore, Chung Mong-Joon, affinché si adoperasse per porre fine al commercio. Mentre Brigitte Bardot si spese per una campagna animalista che però non portò a nulla. Anzi, all’epoca a Seul si alzarono le barricate: «Le critiche degli stranieri riflettono la mancanza di comprensione della nostra antica cultura: è blasfemia, non criticismo», sostennero alcuni deputati.

In Corea ogni anno si ucciderebbero circa 2,5 milioni di cani per uso alimentare. Parte della carne viene cucinata nei circa 20mila ristoranti specializzati, parte viene utilizzata per scopi medici, ovvero per produrre il gaesoju, una specie di Red bull coreana ottenuta bollendo per lungo tempo la carne assieme a delle erbe. La bevanda viene consumata indiscriminatamente da uomini e donne perché si crede aumenti l’energia e favorisca il recupero dalle malattie. Secondo gli storici il consumo di carne di cane in Corea risale all’epoca Samkug, più o meno negli stessi secoli dell’Impero romano. In quel periodo i cani venivano allevati per essere mangiati in quanto ricca fonte di proteine di facile reperimento. Da allora per secoli i meticci conosciuti in coreano come nureongi sono sempre stati allevati per la macellazione, mentre altre razze pure sono state utilizzate come animali di casa. Abitudine cresciuta negli ultimi anni: da quando il Paese ha raggiunto il benessere (oggi il Pil procapite coreano è superiore a quello italiano) la moda degli animali domestici si è diffusa a macchia d’olio, tanto che oggi sono circa tre milioni i cani che vivono in casa. Così per la prima volta nella storia del Paese i sostenitori della bontà e della liceità del consumo della carne di cane sembrano essere in minoranza. Secondo i sondaggi, solo un terzo dei coreani ne approva il consumo, anche se circa la metà della popolazione ammette di averla provata almeno una volta nella vita. Ma oltre il 60% dei giovani sotto i trent’anni non l’ha mai assaggiata e anzi sarebbe favorevole a vietarla.

Il governo non prende ufficialmente posizione, nonostante decine di petizioni con milioni di firme presentate dalle organizzazioni animaliste e le pressioni internazionali. Ma le strategie degli animalisti diventano sempre più raffinate e spingono le autorità a intervenire. Questa primavera si è arrivati alla chiusura del più grande mercato del Paese, il Moran market di Seongnam, città da un milione di abitanti alla periferia sud est della capitale. Qui venivano commercializzati oltre 80mila capi, ma gli animalisti sono riusciti a farlo chiudere evidenziando le condizioni precarie in cui venivano tenuti gli animali e la brutalità dei metodi di uccisione: la maggior parte delle volte tramite scariche elettriche, ma spesso infilandoli in un sacco e colpendoli a legnate. Questo perché c’è la credenza diffusa che l’adrenalina renda la carne più gustosa e ne accresca i benefici per la salute. Pur tra le proteste, i commercianti si sono dovuti adeguare, accettando il sostegno economico delle autorità per l’apertura di nuove attività commerciali. Il problema è dunque legislativo: mangiare carne di cane in Corea del Sud non è né legale né illegale. Sta in una zona grigia non ben regolata, come scrive Claire Czajkowski, ricercatrice della Scuola universitaria in legge della Lewis & Clark di Portland, Stati Uniti. La vendita della carne di cane non è disciplinata come invece accade per il resto del bestiame e di conseguenza il suo allevamento e macellazione non è regolato. Da qui l’utilizzo di pratiche altrimenti bandite per l’uccisione del bestiame. Un vuoto legislativo cui si appellano le organizzazioni animaliste per provare a porre fine alla pratica. Ma non è l’unico metodo: alcune organizzazioni britanniche e americane hanno iniziato a perlustrare i mercati coreani per comprare i cani destinati al macello, dandoli poi in adozione agli attivisti disposti a pagare fino a 2mila dollari per salvargli la vita. Situazione questa che manda su tutte le furie i difensori del commercio, che accusano gli animalisti di essere schiavi dell’imperialismo occidentale.

In tutta questa eterna discussione è intervenuto a suo modo anche il neopresidente Moon Jae-in. Poche settimane dopo il suo insediamento alla Casa blu, ha adottato un cane, Tory, e un gatto, Jjing-Jjing. Il cane non è un bellissimo e bianchissimo Jindo, la razza autoctona dal pedigree secolare venerata nel Paese per la sua bellezza e che nessuno si sognerebbe di cucinare, ma un umile bastardino, per giunta nero: un problema nella superstiziosa Corea. «Per gli standard ha spiegato il presidente Tori è un cane brutto e coperto di pelo nero. L’ho adottato come first dog nella convinzione che gli animali come gli uomini debbano essere liberi da pregiudizi e discriminazioni». Nessun riferimento esplicito al delicato argomento carne di cane, ma gli analisti non hanno mancato di far notare come Tori sia un cane preso in un canile, in cui era finito dopo essere stato sottratto a un uomo che stava per ucciderlo per cucinarlo. E in un mondo fatto di simboli e silenzi, come quello coreano, certe cose contano. Anche a Seul alle volte la miglior parola è quella che non si dice.

Osvaldo Spadaro