Durante il suo discorso di mercoledì all’assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha presentato un nuovo sistema di sicurezza collettiva per il Golfo Persico che comprende solo gli Stati della regione, chiamato “Hormuz Peace Initiative”.
Alcune notizie su questo progetto erano state già pubblicate sui media iraniani, illustrando i piani per la creazione di una “struttura domestica congiunta” per garantire la sicurezza di tutti i Paesi nella regione ed implicando un’importante cooperazione tra Teheran e gli attuali avversarsi nel Golfo guidati dall’Arabia Saudita.
Il cavallo di battaglia sfoderato da Teheran per questa misura di sicurezza è l’affermazione di averla basata sulla Risoluzione 598 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quella che ha posto fine alla guerra tra Iran ed Iraq nel 1988; al tempo, la risoluzione richiese coordinazione a livello regionale e locale per impedire conflitti futuri. Secondo il presidente Rouhani, tale cooperazione avrebbe reso inutile la presenza di una marina straniera o di altre forze.
“La sicurezza non può essere acquistata né fornita da governi stranieri. La pace, la sicurezza e l’indipendenza dei nostri vicini valgono quanto le nostre. Gli Stati Uniti non sono nostri vicini. La formazione di una qualsiasi coalizione o iniziativa, sotto qualunque nome, con la centralità ed il comando di forze straniere è un chiaro esempio di ingerenza negli affari della regione”, ha affermato il presidente Rouhani durante l’assemblea generale.
Per tutto il suo discorso, il presidente ha rifiutato aspramente la possibilità di ulteriori negoziazioni con gli Stati Uniti riguardo il proprio ritiro dall’accordo sul nucleare Jcpoa, e ha invitato gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (capeggiati dall’Arabia Saudita) ad abbandonare i loro padroni statunitensi ed europei per unirsi invece ad un nuovo progetto di sicurezza guidato dal suo Paese.
“La Repubblica Islamica dell’Iran è la vostra vicina, e da tempo abbiamo imparato che i vicini vengono prima di tutti. In caso di incidenti, ce ne occuperemo tra di noi, insieme. Siamo l’uno il vicino dell’altro, ma non degli Stati Uniti. Siamo pronti a mettere in atto la nostra forza nazionale, la nostra credibilità regionale e la nostra autorità internazionale. La soluzione di pace nella Penisola Araba, nel Golfo Persico e nel Medio Oriente è da cercare all’interno della regione”, ha dichiarato il presidente.
Il progetto di pace “Hormuz Peace Initiative” verrà visto da Washington come una sfida alla propria dottrina ormai di vecchia data, quella che prevede di mantenere il controllo militare nel Golfo, monitorando gli spostamenti di petrolio e gas naturale, nonché l’immesso potere economico che ne deriva.
Fino al 1979 gli Stati Uniti hanno messo in atto la cosiddetta “Periphery Policy” nel Medio Oriente, attraverso cui i propri alleati non arabi – principalmente Israele, Turchia, Pakistan ed Iran (che allora era governato dagli Shah) – avrebbero garantito la sicurezza regionale dei Paesi arabi che producono petrolio, ammettendo un intervento da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna solo come ultima risorsa.
Questo sistema subì una prima scossa nel 1979, quando la Rivoluzione Islamica rovesciò il governo iraniano dello Shah Mohammad Reza Pahlavi (supportato dagli Stati Uniti), troncando i rapporti con Israele ed iniziando a supportare insurrezioni politiche in tutto il mondo arabo, specialmente in Iraq e nelle monarchie del Golfo Persico.
Avendo perso clienti di rilievo, gli Stati Uniti istituirono la “Dottrina Carter”, per cui ogni minaccia proveniente da una “potenza straniera” all’accesso dell’Occidente alle riserve energetiche della regione avrebbe comportato immediatamente l’intervento militare diretto degli Stati Uniti.
L’apice dell’espansione statunitense nel Golfo Persico fu raggiunto con l’invasione irachena in Kuwait nel 1990 che, tra statunitensi e loro alleati, fece prima arrivare e subito dopo stabilire in Arabia Saudita e negli Stati limitrofi quasi un milione di persone, provocando tensioni sociali non indifferenti.
Il primo decennio del 21esimo secolo ha visto una continua crescita dell’impatto militare statunitense in seguito alla loro invasione ed occupazione dell’Iraq, governato fino al 2003 da Saddam Hussein. Tuttavia, i tentativi di Washington di creare un regime clientelare favorevole agli Stati Uniti fallirono dinnanzi all’opposizione armata irachena e ai profondi legami tra l’Iran e la popolazione sciita, che diventò la forza politica predominante per la prima volta nella storia del Paese.
La lunga – anzi, lunghissima – ritirata degli Usa dall’Iraq fu completata nel 2011 e fu in larga parte influenzata dal timore di rafforzare l’assertività iraniana. Nonostante l’occupazione del territorio, l’Iraq ha da allora visto amministrazioni economicamente e politicamente più favorevoli nei confronti di Teheran che di Washington, creando un raggio di influenza anche nei pressi della Siria e del Libano anche conosciuto come “Mezzaluna Sciita”.
La rivolta in Bahrein del 2011 ha sollevato ulteriormente i timori occidentali per cui Teheran e gli alleati a Baghdad vorrebbero vedere una maggiore forza politica delle popolazioni sciite nel Golfo e cacciare definitivamente gli Usa e le altre forze occidentali dalla regione.
Mentre gli Stati Uniti non dipendono dal Golfo Persico per il proprio fabbisogno energetico, un improvviso cambio di direzione degli investimenti dei Paesi del Golfo nella direzione dell’Iran non solo aumenterebbe vertiginosamente il potere di quest’ultimo, ma comporterebbe anche la perdita di una fonte di stabilità vitale per il sistema finanziario globale, all’interno del quale diversi Stati del Golfo hanno enormi investimenti di vecchia data.
Per quanto possa apparire più o meno realizzabile in questo momento, il progetto di pace “Hormuz Peace Initiative” sarebbe la mossa conclusiva perfetta in una lunga partita che gli iraniani hanno portato avanti per molti decenni.
Traduzione a cura di Stefano Carrera