Dopo gli anni del grande impegno in Medio Oriente, l’attenzione degli Stati Uniti si è spostata più a oriente. A turbare i sonni del Pentagono e del dipartimento di Stato non ci sono più, almeno per ora, Al Qaeda e il terrorismo islamico, ma le mosse della Cina. La Repubblica popolare negli ultimi anni ha mostrato di voler giocare un ruolo da protagonista nello scacchiere mondiale, non solo dal lato economico, vedi alla voce Nuova via della seta, ma anche da quello militare.
L’azione di Pechino si è concretizzata attraverso una strategia molto precisa di allargamento della sfera di influenza. Pilastro centrale di questo processo viene giocato dal Mar Cinese Meridionale. La Cina ha investito molto per estendere il suo dominio verso Sud, trasformando atolli e scogli in isole fortificate con piste di atterraggio per i suoi bombardieri, radar e punti di appoggio per la sua flotta sempre più grande. Oggi che quell’area è di difficile accesso, lo sguardo di Xi Jinping e del Dragone ha iniziato a estendersi un po’ più in là: nel Pacifico occidentale.
Quando si parla dei settori occidentali del grande oceano, solitamente si dividono le isole in due gruppi: la “prima catena” viene identificata con gli atolli nel bacino del Mar Cinese Meridionale; mentre la “seconda catena” va dal Giappone fino alle Filippine orientali e attraversa le Marianne settentrionali, l’Isola di Guam e Palau. Dalla Seconda guerra mondiale in poi questo secondo anello è sempre statuto considerato dagli Usa come il proprio cortile di casa personale. Ma oggi, grazie ai soldi e alla spregiudicatezza di Pechino non è più così.
La lenta penetrazione cinese nell’area
Come ha raccontato il Financial Times, uno dei punti più delicati è quello della Isole Salomone. Lì la presenza cinese si registra fin al XIX secolo, ma dopo il 2008 l’influenza ha subito una forte accelerata fatta di imprese di Stato impegnate nella realizzazione di infrastrutture, prestiti e ingente flusso di manodopera cinese. Uno scenario che si ripete in fotocopia anche in altre isole.
L’azione di Pechino viene facilitata dalla debolezza economica e politica dei vari Paesi della “seconda catena” e dalla scarsa densità nelle varie isole. Questo ha permesso alle autorità cinesi di impegnarsi con costi relativamente contenuti puntando a estende il suo controllo su vaste porzioni di mare con pochi investimenti mirati. Ovviamente, come per i Paesi lungo la Belt and Road initiative, anche per i piccoli atolli del Pacifico permane lo spettro del debito.
Tra il 2008 e il 2018 i finanziamenti cinesi sono passati da zero a 1,3 miliardi di dollari, con conseguenze preoccupanti per i bilanci dei vari Paesi. Pechino infatti ora detiene quote significative di debito dei vari paesi, come ad esempio il 23% di quello di Papua Nuova Guinea, il 37% delle Fiji, il 39% delle Isole Samoa e addirittura il 64% di Tonga. Ma la Cina ha spinto anche su un programma di aiuti mirato nei vari Paesi senza esporsi troppo. Secondo le rilevazioni del Think tank Lowy Insitute, Pechino ha investito nei vari Paesi solo il 4% del suo programma globale.
Le contromosse americane e i timori dell’Australia
Il campanello di allarme suonato nei corridoi di Washington ha riguardato soprattutto le mosse intorno a Palau, la Federazioni degli Stati della Micronesia e le Isole Mashall. Questo pugno di isole rientra nel cosiddetto Compact of Free Association (Cofa), un accordo che da un lato permette agli abitanti di questi Paesi di ottenere un visto facile per risiedere negli Stati Uniti e dall’altro dare a Washington il diritto ad attraccare nei porti dei vari atolli e allo stesso tempo di bloccare l’accesso agli scali alle navi di altri Paesi. Un modello che però oggi mostra alcuni segni di rottura.
Alla fine di febbraio lo stato di Chuuk, uno dei quattro Stati che compone la federazione della Micronesia, ha deciso di rimandare un delicato referendum sull’indipendenza. Diversi politici e amministratori del gruppo di atolli, che da solo rappresenta la metà della popolazione del settore, vorrebbe abbracciare in maniera definitiva la Cina e i suoi investimenti, di fatto tagliando fuori gli Stati Uniti.
Intanto le autorità statunitensi stanno provando a correre ai ripari. Da un lato promettendo a tutti i membri del Cofa nuovi fondi; e dall’altro rinforzando la partnership strategica con l’Australia. Washington e Canberra si sono infatti accordate per costure una base miliare nell’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea. Il governo australiano non ha nascosto la sua preoccupazione per l’espansione cinese e in più di un occasione è stato costretto a correre ai riparo con soluzioni tampone. Nel 2016, ad esempio, il governo delle isole Salomone decise di sostituire un’azienda tecnologica australiana con la cinese Huawei per la posa di un cavo sottomarino per le telecomunicazioni. In tutta risposta l’Australia si offrì di pagare due terzi dei costi della posa pur di evitare che la tech company cinese mettesse le mani sui una infrastruttura così sensibile.
La spregiudicatezza militare della Cina
La Cina non sta però muovendo solo le leve economiche. Semplificando un po’ possiamo dire che Pechino si trova ora nella fase due della sua espansione nell’area. Il primo step, non ancora completo al 100%, è stato quello che le ha permesso di estendere il suo dominio nei vari atolli del Mar Cinese Meridionale. In particolare l’esercito di liberazione popolare ha lavorato molto per migliorare la sua “Anti Access/Area Denial” (A2/AD). Una strategia che le ha permesso di fortificare tutta la fascia che va dalla Penisola Coreana al Vietnam, in modo da impedire gli Stati Uniti di muoversi liberamente ed eventualmente di correre in soccorso in caso di un Paese alleato in caso di conflitto locale.
Il progressivo allargamento dell’artiglieria cinese nell’alto nel Mar Cinese Meridionale
Pechino è riuscita a ottenere questa “safe zone” in due modi. In primo luogo allargando la sua artiglieria. Secondo uno studio del think tank Rand tra il 1996 e il 2017 Pechino ha dispiegato migliaia di missili lungo la sua fascia costiera aumentando sempre di più la gittata dei suoi missili fino a mettere stabilmente nel mirino l’isola americana di Guam. Stando a un rapporto dello US-China Economic and Security Review Commission la Cina disporrebbe di circa 2 mila vettori, tra missili cruise e razzi balistici capaci di colpire obiettivi americani. Il secondo modo di crearsi questa fascia cuscinetto è stato, come abbiamo visto, quello di fortificare l’arcipelago delle isole Paracel e Spratly.
Il progressivo allargamento dell’artiglieria cinese nell’alto nel Mar Cinese Meridionale
Una volta messo in sicurezza il cortile di casa, la Cina ha iniziato timide operazioni di allargamento a Ovest. In base ai dati raccolti tramite il portale marinetraffic.com il Ft è stato in grado di ricostruire i movimenti di decine di navi per la ricerca oceanografica battenti bandiera cinese. Molte di queste hanno transitato non lontano da Guam e scandagliato in lungo e in largo i fondali. Hanno piantato boe di segnalazione e raccolto informazioni. Tre di loro, in particolare, si sono spinte molto lontano, quasi verso le Hawaii, un segno, secondo molti analisti, che il viaggio era legato più a scopi militari che di semplice ricerca scientifica.
Intanto la popolazione locale si è mostrata preoccupata. Il timore è quello di tornare ancora una volta al centro di un vasto conflitto. Dalle parti di Guadalcanal, sulle Isole Salomone, c’è chi teme di rivedere quanto successo tra il ’42 e ’43, solo che sta volta a fronteggiare gli americani non ci sarebbe più l’Impero del Sol Levante, ma quello del Dragone.