Donald Trump ha visto aprirsi nelle ultime settimane l’ennesima faglia che lo divide dai suoi servizi di intelligence sul tema della presunta origine di laboratorio del coronavirus che sta duramente impattando gli Stati Uniti. L’intelligence a stelle e strisce non è stata certamente permissiva nei confronti della Cina, accusata tra le altre cose della sottovalutazione del numero di morti nel focolaio di Wuhan, ma sull’origine di laboratorio del coronavirus non ha per ora seguito il potere esecutivo statunitense.

I dubbi degli 007 sul Covid-19

Per ora gli agenti Usa “concordano con il largo consenso scientifico che il virus non è stato prodotto dall’uomo o geneticamente modificato”, ha fatto sapere la National intelligence (Dni), che coordina tutte le agenzie del settore. Ma la Dni assicura che “continuerà ad esaminare rigorosamente le informazioni che emergeranno per determinare se la diffusione è cominciata tramite contatto con animali infetti o se è il risultato di un incidente di laboratorio”.

Affermazioni dal tenore completamente diverso da quello di Trump e del suo Segretario di Stato Mike Pompeo che, messi spalle al muro dalla corsa del contagio, dai sondaggi elettorali declinanti e dal rischio di una catastrofe economica hanno giocato la carta delle accuse dirette a Pechino senza avere la certezza di esser seguiti dalla comunità dell’intelligence.

Gli apparati di potere dello Stato profondo statunitense hanno ampiamente condizionato l’amministrazione Trump, e risultano al loro interno fortemente concordi con l’amministrazione nell’individuazione della Cina come rivale strategico numero uno per Washington: immaginare una “guerra” di un presunto Deep State anti-trumpiano alla Casa Bianca è semplice fantascienza. Al tempo stesso risulta vero affermare che The Donald ha avuto un rapporto complicato con gli apparati di intelligence e spionaggio rappresentanti la punta di lancia dell’influenza statunitense nel mondo.

Un presidente molto umorale

Risulta notorio che l’attitudine impolitica di Trump lo porti a ragionare, anche da inquilino della Casa Bianca, con logiche da amministratore delegato, puntando a vedere riflessa nella sua organizzazione il proprio modo di agire e pensare. Time ha rivelato che Trump semplicemente non presta fede ai rapporti e ai briefing dell’intelligence che contraddicono le sue affermazioni pubbliche, e che diversi membri del suo staff abbiano da tempo rinunciato a presentargli rapporti in contrasto con esse.

Dall’Iran, dossier che Trump ha preso in mano autonomamente arrivando a decisioni improvvide come l’uccisione di Qasem Soleimani, al Venezuela, scenario in cui la Casa Bianca con l’appoggio del Nsc di John Bolton ha contribuito a organizzare un fallito golpe da operetta, l’influenza destabilizzante di un potere esecutivo deciso a non prestare fede all’appoggio delle spie si è fatta sentire in tutta la sua forza.

Al contempo, la sfiducia è stata alimentata in Trump dall’atteggiamento di diversi uomini degli apparati che si sono dimostrati pregiudizievoli nei suoi confronti. L’ultimo esempio è stato reso pubblico a inizio aprile, quando il presidente degli Stati Uniti ha licenziato Michael Atkinson, funzionario di intelligence che aveva ricevuto e segnalato al Congresso la denuncia anonima che aveva portato al processo di impeachment contro Trump. Atkinson aveva avviato la fallita procedura di messa in stato d’accusa di Trump, che si era dimostrata apertamente lacunosa.

Tutti gli uomini del presidente

Tale sfiducia si è ripercossa sulla scelta degli uomini e delle donne nella comunità dell’intelligence, portando a un turbinoso avvicendamento di nomine, licenziamenti e dimissioni legato all’irrigidimento della Casa Bianca e delle centrali anti-trumpiane nell’intelligence.

Il caso più celebre è stato legato al licenziamento dell’ex direttore dell’Fbi James Comey nel pieno dello scandalo Russiagate, da cui Trump è uscito paradossalmente rafforzato politicamente.

L’unico avvicendamento ordinato andato in scena nei tre anni di amministrazione Trump è stato alla guida della Cia, divenuta la più “trumpiana” delle organizzazioni di intelligence, in seguito all’ascesa di Gina Haspelal posto di Mike Pompeo, promosso a Segretario di Stato, tra aprile e maggio 2018.

Per il resto, il valzer è stato continuo. Il posto di Director of National Intelligence ha visto tre avvicendamenti: Dan Coats, critico dell’operato di Trump su Corea del Nord, Iran e Russia, è uscito di scena nell’agosto 2019; il suo successore, Joseph Maguire, è durato fino a febbraio prima di scontrarsi con Trump e uscire di scena a favore del traghettatore Richard Grenell.

Susan Gordon, vice di Coats, è stata a sua volta rimossa assieme al superiore; lo scandalo impeachment rischia di veder cadere altre teste dopo quella di Atkinson e di Jason Klitenic, alto funzionario del Dni dimessosi a marzo. Tra Trump e le spie c’è un clima problematico che, anche in caso di riconferma a novembre del Presidente, perdurerà: al contempo, anche un vincitore democratico come Joe Biden non potrebbe non rilevare che qualcosa, tra Casa Bianca e apparati, si è guastato. In fin dei conti, il problema è la leadership statunitense nel mondo, considerata dall’intelligence uno stock da preservare con obiettivi fissi di lungo periodo e dal potere esecutivo un flusso da alimenatare, nel caso di Trump, con azioni imprevedibili e manovre a sorpresa. Anche a costo di attraversare il Rubicone, come nel caso coronavirus: tirare troppo la corda nel considerare la propria convinzione come l’unica accettabile danneggia la posizione degli Usa nel mondo.

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