Donald Trump è in prima linea nella battaglia contro il coronavirus. The Donald, dopo aver minimizzato per qualche giorno, ha ammesso di sentirsi un presidente in “guerra”. Negli States hanno compreso come con questa storia non si possa scherzare. Ma è interessante anche guardare allo stato della propaganda politica. Il presidente degli Stati Uniti d’America ha iniziato ad utilizzare questa espressione: “Chinese virus”. E la motivazione legata a questa scelta lessicale è piuttosto semplice: il microrganismo proviene dalla Cina, per quanto Pechino possa non essere concorde con questa che suona come una sentenza. Al leader del Gop, comunque sia andata la faccenda legata all’origine del coronavirus, conviene assecondare la tesi secondo cui il Covid-19 provenga dall’Asia affibbiando le colpe al gigante cinese.

Si tratta di una strategia geopolitica che può nascondere anche una ragione di tattica. Se non altro perché il Partito Democratico, in prospettiva, potrà avere delle difficoltà a distribuire le responsabilità con la medesima chiarezza. Joe Biden, il candidato in pectore degli asinelli per le presidenziali di novembre, non può sostenere una visione che preveda due poli, gli States ed il “Regno celeste”, alla stregua di due superpotenze contrapposte. Barack Obama e Michelle hanno prodotto un documentario apposito per mostrare come le imprese americane e quelle cinesi debbano dialogare, integrandosi. La guerra commerciale poi, con tanto di dazi, è una prerogativa di Trump, e Biden non può sovrapporsi ad una narrativa – quella competitiva con la tabella di marcia di Xi Jinping – che ha già un legittimo proprietario.

Ma la “guerra” per cui Trump ha deciso di scendere in campo si combatte più piani. Quello principale è il terreno sanitario e del sostegno a famiglie e imprese, per cui l’inquilino Casa Bianca ha sfoderato quello che gli analisti chiamano ormai ovunque “bazooka”, ossia migliaia di miliardi di dollari che provengono da più canali istituzionali. L’approvazione di questa notte di un accordo tra Casa Bianca e Senato su un piano da 2mila miliardi di dollari per evitare la recessione è un segnale di come il presidente Usa abbia ancora parecchie armi nel proprio arsenale. “Finalmente, abbiamo un accordo”, ha detto il leader repubblicano al Senato Mitch Mc Connell. Ma ora la palla passa all’approvazione dei due rami del parlamento.

Il Partito Democratico, specialmente nella Camera bassa, cerca comunque di fare ostruzione. La speaker Nancy Pelosi vorrebbe che si discutesse della proposta progressista. E questo ha di fatto impedito che la ricetta di Trump, almeno in prima battuta, venisse approvata. Non è un fatto di poco conto: gli americani, in vista delle elezioni, potrebbero tenere conto del ritardo. Perché il tempo, in questo contesto pandemico globale, rappresenta una variabile che non tutti possono permettersi di rispettare (e attendere). Bernie Sanders, che sembra quasi essersi eclissato in questa fase di corsa per la nomination democratica, sta diffondendo questo messaggio: non bastano mille dollari per americano, ma ne servono duemila. La tenuta del sistema sanitario è uno dei grandi focus di questi tempi: i Democratici, con qualche distinguo essenziale, pensano che i diritti di base debbano essere garantiti a tutti. Alexandria Ocasio-Cortez, per esempio, vorrebbe che i finanziamenti finalizzati alla copertura degli effetti pandemici arrivassero a tutti i cittadini il prima possibile. Sulla base della votazione al Congresso che abbiamo appena citato, però, vale la pena sottolineare come sia il Partito Democratico a frenare le operazioni che Trump ha già predisposto.

Problemi pratici, ma anche ideologici: specialmente in campagna elettorale. “Questo (il Covid-19, ndr) è il motivo per cui abbiamo bisogno di frontiere”. Donald Trump lo ha scritto su Facebook, poco prima di specificare come sia necessario evitare di additare ad untori la minoranza di origine asiatica che risiede negli Stati Uniti. Anche qui parliamo di due piani differenti d’intervento: da un lato c’è uno delle issues che hanno contraddistinto il populismo-sovranista in questi anni, cioè la difesa delle frontiere; dall’altro lato, invece, permane la esigenza di evitare che gli asiatici si sentano colpevolizzati per un virus che, nella più probabile delle ipotesi, è saltato da un pipistrello all’uomo, dopo aver dimorato per qualche tempo all’interno di una qualche cellula di qualche chirottero tipico del Sud della Cina.

Ma qualche speranza di debellare in tempi brevi il Covid-19 esiste. E Trump, da qualche giorno a questa parte, ha iniziato a chiamare per nome una medicina. Per quanto il dottor Antohony Fauci, il capo della task force contro il coronavirus che The Donald ha messo insieme, sia molto più cauto. Per Trump, che continua a dialogare con i governatori degli Stati della California e di New York, nonostante la differente provenienza partitica, sembra possibile che una combinazione di sostanze possa fungere da panacea: “Idrossiclorochina ed azitromicina, presi insieme, hanno una reale possibilità di essere uno dei più grandi variatori di gioco nella storia della medicina. La FDA ha spostato le montagne – Grazie! Speriamo che entrambi (H funziona meglio con A, International Journal of Antimicrobica) sia immediatamente reso disponibile. Le persone stanno morendo, bisogna muoversi in fretta e DIO BENEDICA TUTTI!”.

Il dottor Anthony Fauci, l’immunologo che Trump ha scelto per guidare questa battaglia, ha smorzato gli entusiasmi. Ma è chiaro come la situazione di New York, che per le statistiche rischia di divenire un vero e proprio focolaio internazionale, suggerisca la necessità che gli Stati Uniti si prodighino, con la maggiore velocità prevista, per rintracciare anzitutto una cura e poi un vaccino. Donald Trump sta combattendo la sua guerra. E forse, in qualche modo, anche le elezioni di novembre sono già in corso. Se gli Stati Uniti dovessero intraprendere un percorso economico recessivo, la strada per la vittoria di Joe Biden sarebbe spianata.





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