La partita della sicurezza nazionale è cruciale nel contesto del confronto tra Donald Trump e Joe Biden,che animerà le elezioni presidenziali statunitensi del prossimo 3 novembre. Il Paese si ritrova ad essere talmente diviso e polarizzato e inquinato da talmente tante scorie degli anni di durissima contrapposizione politica tra democratici e repubblicani che anche sugli interessi fondamentali della nazione e il ruolo di intelligence e servizi segreti la competizione è serrata. Questioni politiche fondamentali come il Russiagate e l’impeachment a Trump (entrambi tramontati) e il discusso Spygate/Obamagate che Trump usa come arma propagandistica hanno reso partigiana anche la discussione in materia.

Il grado di sfiducia è tale che la questione politica si è fatta scontro mediatico, elettorale e perfino istituzionale. Nelle scorse settimane un discusso memo di William Evanina, direttore del National Counterintelligence and Security Center, ha segnalato la postura nei confronti di Trump e Biden dei principali Paesi rivali degli Usa, pronti a scatenare secondo le autorità dell’intelligence il loro “sharp power” disinformativo sulla campagna. L’Iran e la Cina, in quest’ottica, preferirebbero Biden, la Russia invece sarebbe più orientata a confermare l’appoggio a un Trump-bis. Opinioni di una branca, per quanto non ininfluente, degli apparati americani. Ma che si inseriscono in una lunga “guerra di intelligence” che ha coinvolto i due maggiori partiti americani, la Casa Bianca e il Congresso in questi anni.

In queste settimane il clima è diventato incandescente. Come riporta Formiche, “a Washington DC si sta assistendo ad un inedito scontro politico proprio sul tema della sicurezza delle informazioni riservate. Il direttore dell’intelligence nazionale Usa, John Ratcliffe, ha deciso di interrompere i briefing sulle questioni di sicurezza elettorale con il Congresso poiché qualcuno, forse il presidente della commissione per i Servizi segreti della Camera dei rappresentanti, Adam Schiff, ha fatto trapelare informazioni riservate” alla stampa volte a compromettere il Presidente per fini elettorali. Schiff, 60enne rappresentante democratico californiano, ha accusato il presidente di voler far un uso personalistico dell’intelligence e di voler coprire il sostegno russo alla sua candidatura.

Al contempo, Schiff, tra i maggiori “inquisitori” del fallito processo di impeachment avviato proprio dalla Camera, è accusato dai repubblicani di aver trasformato il comitato da lui presieduto in un vero e proprio tribunale per proseguire la campagna sulle interferenze russe a favore di Trump e di essersi adeguato alla condotta democratica, fondata sulla conversione della Camera da loro controllata in un’arena anti-trumpiana. Come scrive il New York Post, scarsa sarebbe invece l’attenzione dedicata ai saccheggiatori e agli estremisti che hanno deviato le proteste seguite alla morte di George Floyd. Il deputato repubblicano Devin Nunes, californiano e embro della commissione intelligence presieduta da Schiff, ha dichiarato che i dem si sono approcciati alle proteste solo ed esclusivamente per sindacare il richiamo di Trump all’uso della forza a Portland contro i protestanti più violenti.

Sullo sfondo, c’è un grande posizionamento in vista del prossimo quadriennio. Ove, in caso di vittoria di Trump, il tamburo battente della Camera a controllo democratico potrebbe suonare con maggior forza; mentre i repubblicani, tra cui cominciano a sorgere frange sempre più convinte del complotto ordito da frange di “Stato profondo” contro l’amministrazione, sarebbero sempre più incentivati a concentrare le dinamiche politiche dell’intelligence sulla Casa Bianca. Un totale ribaltamento di prospettiva si avrebbe in caso di successo di Biden. In palio ci sono le leve più strategiche del potere che, come visto, risultano l’oggetto del contendere nella campagna elettorale. Ennesima, concreta manifestazione di quanto profonde siano le faglie che dividono gli States in vista del voto del 3 di novembre.





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