La ripresa delle comunicazioni militari. La decisione di cooperare sull’intelligenza artificiale, sulla lotta al cambiamento climatico e sul contrasto della diffusione del fentanyl. Anche se Joe Biden considera un successo l’incontro con Xi Jinping andato in scena a San Francisco, in realtà tra Stati Uniti e Cina permangono distanze siderali sulle tematiche più importanti delle rispettive agende. Le stesse che, in un futuro non troppo lontano, potrebbero incrociarsi generando un conflitto su vasta scala.

Il riferimento principale va ovviamente alla questione taiwanese, rimasta com’era prima del bilaterale. “La Cina alla fine sarà inevitabilmente riunificata”, ha detto Xi al suo omologo, rimarcando sostanzialmente la posizione cinese sull’intero dossier. Ovvero: Taiwan, prima o poi, presto o tardi, con le buone o con le cattive, tornerà ad essere parte integrante della Repubblica Popolare Cinese. Pechino, infatti, considera l’isola come una provincia separatista da riunificare con la terraferma. Anche a costo di usare le maniere forti, se le circostanze dovessero renderlo necessario.

Washington, invece, non riconosce Taiwan come uno stato indipendente, ma è vincolato dalla legge americana ad armare Taipei per consentire al governo taiwanese di autodifendersi (Taiwan Relations Act). 

La grande divergenza: Taiwan

Indicando le vendite di armi statunitensi sull’isola e gli incontri tra funzionari americani e taiwanesi, Pechino ha più volte accusato Washington di aver eroso il loro accordo su Taiwan, che è stato la base per stabilire legami formali nel 1979. Xi ha chiesto quindi a Biden di smettere di armare l’isola, rimarcando il fatto che il dossier taiwanese sia il più spinoso all’interno delle relazioni tra Usa e Cina.

Dal canto suo, Biden ha spiegato in conferenza stampa, dopo il faccia a faccia con il leader cinese, che la sua discussione con l’ospite asiatico sull’isola è stata breve. L’inquilino della Casa Bianca ha ripetuto a Xi che non avrebbe cambiato la One China Policy, la stessa che anche i precedenti presidenti degli Stati Uniti avevano sostenuto.

Di fatto, ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale: mentre Washington sarebbe disposto a ragionare sullo status quo di Taiwan, senza parlare di autonomie e indipendenze di Taipei, per Pechino sembrerebbe esser arrivato il momento di rompere questo status quo. Detto altrimenti, Xi non intende, né ora né mai, scendere a patti sulla questione taiwanese con gli Usa. Il motivo coincide con il ritornello più volte ripetuto dalle autorità cinesi: Taiwan è un affare interno alla Cina e sarà riunificata alla madrepatria. 

La distensione dopo la crisi

Il vertice di San Francisco, necessario per entrambe le superpotenze, di fatto chiude un’arco di crisi su Taiwan iniziato con la visita di Nancy Pelosi, ex speaker della Camera Usa, a Taipei nell’estate del 2022. Il punto, nota Foreign policy, è che mentre la chiusura della terza crisi dello Stretto, datata 1996-1996 portò a un periodo di prosperità, non è detto che la fine della quarta crisi abbia gli stessi esiti. Le prove di forza muscolari della Repubblica popolare nei mesi successivi alla visita di Pelosi hanno dimostrato che Pechino, almeno sulla carta, sarebbe in grado di tagliare fuori l’isola dal resto del mondo. Fino agli anni ’90 l’ex Formosa poteva schierare un dispositivo aereo e marittimo sufficiente a tenere a bada Pechino ma oggi non è più così. Questo ha ovviamente delle conseguenze anche nella deterrenza dell’America.

Washington deve trovare una chiave per gestire la forza che Pechino sta dispiegando lungo tutto il suo cortile di casa. Ne sa qualcosa Barack Obama. Nel 2015 durante la visita di Xi negli Usa il presidente cinese aveva promesso alla Casa Bianca che non avrebbe militarizzato il Mar Cinese Meridionale. Ma qualche mese dopo, nel febbraio del 2016, parlando con i vertici dell’esercito è arrivato il cambio di rotta: “Dobbiamo cogliere un’opportunità accelerando la costruzione delle isole nel Mar Cinese Meridionale, in questo modo possiamo ottenere una svolta storica nella strategia marittima”, aveva detto Xi.

Per tutte queste ragioni gli Usa da tempo cercano di trovare un’architettura di alleanze per contenere la Cina. Impresa non semplicissima. La politica del Pivot to Asia inaugurata dall’amministrazione Obama non ha portato risultati significativi, sia per l’approccio ruvido di Donald Trump che è arrivato dopo, ma soprattutto per forti disfunzioni interne. E su questo punto Joe Biden è stato colpito più duramente dai suoi predecessori. Il vertice APEC di San Francisco non doveva essere solo il momento dell’incontro tra i due, ma un passaggio cruciale in cui l’amministrazione americana avrebbe svelato la sua strategia economica tramite l’Indo-Pacific Economic Framework (Ipef). Peccato che così non è stato.

La guerra interna ai dem ferma i piani di Biden

La Casa Bianca ha dovuto cancellare quasi all’ultimo minuto l’annuncio della conclusione dei lavori sul nuovo patto commerciale per l’Asia-Pacifico. A bloccare piani e sogni di Biden un senatore dem dell’Ohio, Sherrod Brown che ha capitanato una fronda anti Ipef. I legislatori dem hanno minacciato di opporti all’accordo se ne fosse stata annunciata la conclusione. Brown e altri politici del Mid West da tempo sostengono che l’Ipef sia carente in alcuni passaggi e che questi espongano i lavoratori americani. Per i detrattori, il patto, così come è stato abbozzato, rischia di erodere posti di lavoro nell’America profonda e giocoforza costare la rielezione.

In realtà, hanno notato in molti dall’Asia, l’accordo non apre il mercato statunitense ai beni asiatici, ma almeno avrebbe presentato un segnale. Wendy Cutler, che presiede l’Ipef ha detto al Financial Times che lo stop è stato vissuto molto male dai partner commerciali in Asia. A complicare il tutto anche il fatto che il prossimo anno negli Usa è un anno elettorale. Sembra difficile si possa arrivare a un’intesa commerciale così complessa in breve tempo.

L’Ipef comprende una cooperazione rafforzata con diversi partner tra cui Australia, Giappone, Corea del Sud, Singapore e Indonesia, che da soli valgono il 40% dell’economia globale. Per come è disegnato l’accordo prevede quatto pilastri principali e su tutti va trovato una accordo dopo lunghi negoziati. Il primo è stato completato nel maggio scorso e includeva l’unione delle catene di approvvigionamento di tutti i partner. Altri due pilastri, su energia pulita e tassazione, dovrebbero essere annunciati nelle prossime settimane. Resta il nodo commerciale, quello stoppato alla vigilia del vertice.

Questo intoppo non è un caso isolato. A maggio Joe Biden aveva dovuto cancellare una visita programmata in Papua Nuova Guinea per tornare a Washington a mediare con il Congresso per innalzare il tetto del debito. La tappa a Port Moresby era indispensabile per suggellare un nuovo patto con il Paese pacifico, sempre più centrale nello scacchiere asiatico vista l’aumentata assertività cinese.

La sensazione è che questi episodi di fatto minino la credibilità degli Stati Uniti agli occhi della vasta comunità asiatica che dovrebbe unirsi a Washington per contenere l’ascesa del Dragone. Da tempo nella regione ci si interroga su quanto l’America sia in grado di fornire certezze e questi episodi rischiano di far propendere i partner per il no. Mihai Sora, analista del Lowy Institute già a maggio parlava di una debacle che mostrava il Paese come non all’altezza. Un flop che non pesa solo su accordi commerciali e militari, ma anche sulla percezione stessa della democrazia americana. Se lo scontro è tra il modello cinese e quello americano, più di qualcuno dalle parti del cortile di casa di Pechino potrebbe pensare che in fondo la democrazia non è così efficiente, utile e sicura. Taiwan è avvista.

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