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Il Regno Unito è uscito dall’Unione Europea con il messaggio di volere “rompere” le catene del Vecchio Continente per tornare a respirare in grande, aprirsi al mondo, riprendere quella vocazione globale che – a detta dei brexiters – sarebbe stata interrotta dai gangli dell’economia e della politica di Bruxelles. Il messaggio è stato tradotto in uno slogan fatto proprio non solo dal primo ministro Boris Johnson ma anche da una serie di personalità influenti del mondo conservatore inglese: Global Britain. Un concetto che per Londra significa non tanto rievocare il proprio passato imperiale, per quanto non così rimosso da certi settori dell’opinione pubblica del “deep state” conservatore, ma ripristinare quell’idea di politica estera incentrata non più sull’Europa ma sull’intero pianeta.

Per realizzare questo scopo, il Regno può fare affidamento su due diversi sistemi. Da un lato il Commonwealth, eredità dell’Impero che appare come un’ultima piattaforma (spesso più formale che sostanziale) in grado di unire Londra ai suoi antichi possedimenti agli angoli del mondo. Dall’altro lato la cosiddetta Anglosfera, e cioè quel sistema di forze imperniato sulla comune radice britannica, che però vede gli Stati Uniti, e non la Gran Bretagna, interpretare il ruolo di regista e vera potenza decisiva.

A questi due complessi conglomerati politici e culturali, in molti casi velleitari, si è aggiunta la netta spinta propulsiva del Regno Unito per l’Alleanza Atlantica. Londra ha sempre dimostrato di essere fedelmente allineata alla Nato e di preferirla, quanto ad alleanze di stampo militare, alle ipotesi più orientate sull’Europa. Ma, da quando ha scelto la via del divorzio dall’Ue, la sua mentalità atlantista si è accentuata, rafforzando la cosiddetta “special relationship” con Washington, il “legame speciale”. La guerra in Ucraina ha solo confermato una tendenza che era evidente già da tempo, dai rapporti sempre più difficili con la Russia fino al rafforzamento di tutto il fronte orientale dell’Europa.

 

La nuova Gran Bretagna, Global Britain di matrice post-Ue, si è così concentrata su tre cardini. Il principale resta il legarsi in modo sempre più netto con la ex colonia Usa, di fatto diventata la vera imperatrice. Gli altri due, quello di guardare ai mercati (possibilmente orientali) e agli antichi domini di Sua Maestà, rappresentano delle necessarie forme di sostentamento dell’economia britannica in assenza di un solido legame con il mercato comune europeo.

Missione non semplice, quella della Gran Bretagna globale, perché si trova a dover gestire un’ambizione che rischia, a conti fatti, di essere più velleitaria che reale. Londra non ha mai amato la sua presenza in Europa e ha capito, dopo alcuni decenni di freno all’asse franco-tedesco, che il Vecchio Continente non avrebbe accolto le istanze del Regno. Troppe differenze strategiche tra i Paesi continentali e Oltremanica, e troppe anche le differenze culturali che dividono la politica britannica da quella dei singoli partner Ue.

Per un Paese profondamente legato a un passato di superpotenza, ma anche estremamente attento al fattore commerciale, essere imbrigliato in un sistema Ue, visto come artificioso ma anche troppo ancorato alle logiche francesi e germaniche, non è mai stato un obiettivo a lungo termine. E il tentativo di equilibrare questa forza continentale incuneandosi al suo interno, ha finito per creare solo delle divergenze e mai dei reali contrappesi ideologici e politici. I movimenti euroscettici hanno poi fatto il resto: ma la parte più profonda del Paese, in cerca continuamente di una realtà più consona alla propria idea di sé stessa, non poteva fermarsi a un destino comunitario.

Commonwealth, Nato, libero mercato con regole scelte da piattaforma internazionali e non Ue, sono elementi più idonei rispetto alle regole dell’Ue per una Londra che guarda al futuro con l’idea di rimettersi in gioco. Questo lo si comprende anche guardando alle scelte di politica estera del governo Johnson, sempre molto attento a ricostruire legami con l’Estremo Oriente, l’India, gli Stati Uniti o l’Australia e con l’idea che questa nuova apertura al mondo sia anche il segnale di un ritorno della potenza militare britannica, confermato da un impegno internazionale cristallizzato nelle scelte anti-russe, ma anche nelle manovre di dispiegamento della flotta in giro per il mondo.

Dall’Atlantico all’Indo-Pacifico, da Hormuz a Gibilterra. Con l’interrogativo, impossibile da risolvere, se tutto questo sia possibile farlo da protagonisti o necessariamente insieme a un altro impero: quello americano.

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