La nuova amministrazione statunitense ha voluto mandare un segnale forte quando, sul finire del mese di febbraio, ha presentato le linee guida per il futuro budget federale, che prevede un deciso incremento degli stanziamenti al settore della Difesa: le forze armate di Washington, infatti, vedranno il loro bilancio, che già sfiora i 600 miliardi di dollari, rimpinguato di circa 54 miliardi di dollari, una cifra che sfiora lo stanziamento annuo del Regno Unito nel settore.Donald Trump ha voluto mandare un messaggio chiaro, che cozza con le interpretazioni della sua visione del mondo espresse da numerosi commentatori nel corso della campagna elettorale: il principio America First, infatti, non è da intendersi come il richiamo a un neo-isolazionismo decisamente insostenibile ai tempi della globalizzazione ma bensì come l’espressione della volontà di rimediare alla duratura “incapacità della politica estera americana post-Guerra Fredda di dare priorità ai propri interessi e affiancare ai mezzi a disposizione obiettivi realistici”, come scritto da William A. Hay sull’ultimo numero di Limes. Non di ritiro dagli scenari internazionali si parla, dunque, ma della ricerca di un nuovo posizionamento strategico per gli Stati Uniti che, nell’ottica di Trump, per rivelarsi efficace deve necessariamente passare attraverso il rafforzamento del più esteso apparato militare del pianeta, come espresso eloquentemente sul sito stesso della Casa Bianca.Lo slancio proposto da Trump alle spese nell’apparato militare hanno suscitato opinioni contrastanti e dato adito a numerosi commenti nel mondo politico ed informativo statunitensi: secondo Caitlin Talmadge del New York Times il fatto che Trump abbia deciso di sviluppare gli investimenti nel campo militare decurtando notevolmente i finanziamenti al Dipartimento di Stato segnala una netta preferenza per i generali e gli ammiragli da parte del Presidente rispetto ai tradizionali apparati burocratici, mentre lo storico avversario di Trump in campo repubblicano, il Senatore John McCain, non può decisamente dichiararsi deluso della scelta di Trump, dato che a fine gennaio aveva auspicato la scelta di budget in via di concretizzazione. La priorità che Trump è pronto a dare allo sviluppo della United States Navy, inoltre, concorda con la visione strategica di McCain e, soprattutto, segnala come il Pentagono e la Casa Bianca abbiano individuato nella Cina il principale competitor strategico di Washington negli anni a venire.Nelle acque dell’Oceano Pacifico, infatti, le contrastanti strategie geopolitiche di Pechino e Washington conoscono la loro linea di faglia: da un lato vi è l’ambizioso progetto cinese della “Nuova Via della Seta”, a cui la Repubblica Popolare intende dare sia uno sviluppo terrestre che uno marittimo, dall’altro la volontà americana di non recedere dalle proprie posizioni e di garantire un’ulteriore estensione a un potere navale inscalfibile da qualsiasi rivale allo stato attuale delle cose. Parlando dal ponte della USS Gerald R. Ford, Trump ha annunciato di voler ampliare la dimensione della flotta americana, prevedendo l’entrata in linea di due superportaerei simili a quella intitolata al successore di Richard Nixon, divenuta coi suoi 13 miliardi di dollari la nave più costosa mai costruita. Portaerei significa proiezione di potenza, ovvero capacità operative globali che oggigiorno sfuggono alla People’s Liberation Army Navy (PLAN) cinese, nonostante gli ambiziosi progetti di riarmo messi in cantiere da Pechino. Gli Stati Uniti di Trump, sotto il profilo geopolitico e militare, considerano la Marina un utilissimo strumento di pressione sulla Cina in una fase che li vede in difficoltà sotto il profilo della grande strategia e incerti sul piano d’azione da mettere in scena negli spazi oceanici: se al contenimento infruttuoso portato avanti da Obama si sostituisse la strategia del rollback, il posizionamento dei gruppi navali basati sulle portaerei a poca distanza dalle coste della Repubblica Popolare e, soprattutto, dalle infuocate acque del Mar Cinese Meridionale rappresenterebbe un’ipotesi più che plausibile. Alberto de Sanctis su Limes ha scritto che gli Stati Uniti continuano a tenere saldamente in mano il “tridente di Nettuno” del potere navale, riservandosi di utilizzarlo qualora fosse funzionale alle proprie ambizioni strategiche.Nella giornata del 4 marzo la seduta annuale del Congresso Nazionale del Popolo ha approvato un aumento del 7% del budget militare cinese, rimanendo perciò all’interno dei programmi prefissati negli anni passati e non operando strappi radicali a causa della crescente tensione con gli Stati Uniti, che i vertici di Pechino non hanno alcun interesse a rinfocolare. Rimanendo all’incirca in linea con il tasso di crescita dell’economia, la spesa cinese nelle forze armate non si smuoverà, per il 2017, dalla modesta quota dell’1,3% del PIL. Il piano di riarmo navale messo a punto dalla Repubblica Popolare negli anni scorsi, divenuto sempre più sostenuto dopo l’entrata in linea della portaerei Liaoning, non è destinato a trasformarsi, almeno per il momento, in una sostenuta corsa alle armi. Se la Cina persevera con la sua strategia pragmatica e punta a non distogliere risorse dai suoi estesi investimenti infrastrutturali, gli Stati Uniti si apprestano a rafforzare il ruolo delle forze armate nell’ottica del loro posizionamento strategico e non sono disposti ad abdicare al loro ruolo di potenza leader sul piano militare: America First, secondo Trump, in fondo significa anche questo.

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