Le dimissioni di Shinzō Abe hanno comportato la fine di un’era per il Giappone e l’entrata dei rapporti con la Russia (e con la Cina) in una nuova fase, probabilmente più conflittuale. Sullo sfondo della rinnovata attenzione statunitense verso le isole Senkaku, oggetto di un contenzioso tra Tokyo, Pechino e Taipei, la tensione sta aumentando progressivamente anche in un altro territorio conteso dell’Estremo Oriente, l’arcipelago delle Curili.
Le ultime mosse di Russia e Giappone
Il mese di dicembre si è aperto con l’entrata in funzionamento – ossia in modalità di combattimento – delle unità di S-300V4 presenti nelle isole Curili. Si tratta di un sistema d’arma appartenente alla famiglia degli S300, precursori degli S400, posto a vigilanza dell’arcipelago e a complemento di una forza militare di terra le cui dimensioni sono state incrementate negli anni recenti.
L’attivazione del sistema di difesa avviene a pochi giorni di distanza dallo sconfinamento del cacciatorpediniere Uss John McCain nel circondario marittimo dell’Estremo oriente russo, più precisamente nella Baia di Pietro il Grande, area di Vladivostok.
Negli stessi momenti in cui venivano attivate le unità di S-300V4 presenti nell’arcipelago, il neo-primo ministro giapponese, Yoshihide Suga, parlando ad un evento organizzato a Hokkaido, spiegava ai presenti di “averlo informato [Putin] del mio intento di concludere questa questione, senza trasferirla alle future generazioni. Intendiamo andare avanti, passo dopo passo, verso la risoluzione della questione dei territori settentrionali [ndr. isole Curili] e verso il trattato di pace”.
Il riferimento di Suga è ad una conversazione telefonica avuta con Vladimir Putin lo scorso settembre, all’indomani delle dimissioni di Abe per ragioni di salute. L’evento, nato per introdurre ufficialmente i due capi di Stato, era stato sfruttato dal neo-primo ministro giapponese per illustrare brevemente e superficialmente i punti-chiave della sua agenda estera. Suga, in particolare, aveva posto l’enfasi sulla volontà di riuscire laddove il suo predecessore aveva fallito: la risoluzione della disputa territoriale e il raggiungimento di un accordo di pace.
Il fallimento di Abe
L’ex primo ministro giapponese Shinzō Abe, in carica dal 2012 al 2020, ha tentato a più riprese, e senza successo, di risolvere la disputa territoriale, anche solo parzialmente, e di siglare un accordo di pace con la Russia. Quest’ultimo punto è dovuto al fatto che l’Unione Sovietica non partecipò ai lavori del trattato di San Francisco e le ostilità con il Giappone furono messe da parte con una dichiarazione congiunta del 1956.
Per portare a compimento questi due obiettivi, Abe ha visitato la Russia ben 11 volte fra il 2013 ed il 2019 e ha provato a mantenere un atteggiamento quanto più equidistante all’indomani dell’inaugurazione del neo-contenimento da parte della seconda presidenza Obama, palesato da Euromaidan e dal conseguente regime sanzionatorio. Il posizionamento del Giappone all’interno del blocco occidentale, però, non ha dato possibilità di scelta ad Abe: il governo ha dovuto aderire alla campagna internazionale di pressioni e sanzioni, pur mantenendo al tempo stesso un profilo timido, marginale e distaccato.
Il Giappone, ad esempio, è stato l’unico membro del G7 a non espellere il personale diplomatico russo dal paese dopo lo scandalo di Sergei Skripal del marzo 2018 ed è anche divenuto ospite fisso del Forum Economico di Vladivostok, la controparte orientale del Forum di San Pietroburgo. Abe ha anche mostrato maggiore pragmatismo rispetto ai predecessori, puntando al recupero della sovranità soltanto su Shikotan e sulle Habomai ed abbandonando le rivendicazioni sull’intera parte meridionale dell’arcipelago.
Gli sforzi ininterrotti di Abe, però, non hanno condotto ai risultati sperati perché Putin non ha mai mostrato reale volontà di dare seguito alle dichiarazioni di circostanza. L’eredità fallimentare di Abe sarà un punto di (ri-)partenza e di riflessione per il suo successore e per il nuovo ministro degli Esteri, Toshimitsu Motegi, i quali sembrano intenzionati ad adottare un approccio maggiormente pragmatico nei confronti di Mosca.
Motegi, del resto, lo scorso maggio, anticipando il contenuto del Libro blu diplomatico per l’anno 2020, aveva preannunciato che Tokyo ambisce a ristabilire la piena sovranità sui territori settentrionali e che le trattative di pace fra i due paesi sono guidate da tale visione.
Un compromesso difficile da raggiungere
La controversia delle Curili nasce all’indomani della fine della seconda guerra mondiale a causa del rifiuto dei sovietici di abbandonare le isole Iturup, Kunashir, Shikotan e il gruppo delle Habomai, conquistate durante la campagna dell’agosto 1945. I giapponesi hanno vissuto quella perdita coatta di sovranità come un furto territoriale e non hanno mai smesso di combattere diplomaticamente per riportare la situazione al pre-guerra.
Per Mosca, però, l’inglobamento delle Curili meridionali era, ed è, ritenuto fondamentale ai fini dell’allontanamento dello spettro di una presenza militare statunitense in prossimità della Kamchatka; questo è il motivo primario alla base del fallimento dell’agenda di Abe e della diffidenza di Putin.
L’immobilismo russo è legato ad un ragionamento di pura e semplice realpolitik: non è nell’interesse del Cremlino cedere le isole perché il loro controllo è fondamentale per la sicurezza nazionale e, inoltre, viene ritenuto legittimo sulla base dello status quo creatosi con la fine della seconda guerra mondiale e di alcuni punti del trattato di San Francisco.
Il parziale fondamento giuridico, però, riveste un’importanza secondaria nel quadro dei negoziati tra Mosca e Tokyo; è la sicurezza nazionale il vero fattore esplicativo della diffidenza del Cremlino. In Russia, infatti, è molto vivo e sentito il timore che le isole, una volta cedute, possano essere convertite ad uso militare su pressioni statunitensi, ponendo una minaccia diretta, vicina e concreta all’Estremo oriente russo. Neanche le ripetute rassicurazioni di Abe in tal senso hanno convinto Mosca, la cui tradizionalmente scarsa fiducia in Tokyo si è ulteriormente abbassata nel secondo dopoguerra e per un motivo non trascurabile: è diventato il più fedele alleato di Washington nella regione.