Mentre portava avanti la sua intensa e innovativa campagna elettorale che si sarebbe conclusa con la conquista della Casa Bianca Donald J. Trump ha a più ripreso puntualizzato la propria volontà di mettere la propria abilità imprenditoriale aln servizio della sfera pubblica e, dopo il suo insediamento come Presidente degli Stati Uniti, non ha mancato di applicare questo principio alle diverse realtà e sfide quotidiane.

L’approccio di Trump, fondato sulla concezione di una potenziale sovrapponibilità tra la politica e il business, non ha finora consentito al Presidente di conquistare vittorie legislative di primaria importanza: Trump si è più volte scontrato con le resistenze della compagine congressuale repubblicana e con l’aperta ostilità dei democratici, che hanno frustrato i suoi tentativi di superamento dell’Obamacare e rallentato la marcia dell’attesa riforma fiscale. Sul fronte internazionale, Trump ha avuto mano decisamente più libera ed ha costruito una propria personale dottrina basata su pochi ma netti principi: la necessità per gli Stati Uniti di tentare di frenare il percepito declino della loro influenza internazionale focalizzandosi il più possibile sulle relazioni bilaterali a scapito del contesto multilaterale, in modo da poter far percepire la supremazia, relativa ma non più assoluta, di Washington, la sostanziale priorità accordata alla sfera commerciale sulle altre materie di rilevanza strategica, l’importanza della relazione e della fiducia personale tra i leader e la volontà di trasformare ogni vertice o summit in una potenziale occasione di business. 

La diplomazia made in Trump è ciò che più si avvicina al concetto imprenditoriale proprio del Presidente e da questi descritto nel celebre libro Trump: The Art of the Deal, pubblicato nel 1987 assieme al giornalista Toni Schwartz. Non è un caso che Trump abbia sin dalle prime battute delegato agli apparati, tanto al National Security Council quanto a un Dipartimento di Stato in progressivo smantellamento ma ancora attivo, l’elaborazione della traiettoria geopolitica e strategica della sua presidenza e abbia focalizzato la sua attenzione sulla sfera della diplomazia vis-a-vis focalizzata al conseguimento di accordi vantaggiosi sul piano commerciale, capaci di creare potenzialmente occupazione e posti di lavoro e rispondere alle istanze dell’elettorato che lo ha condotto alla Casa Bianca.

Una notevole conferma in tal senso è stata rappresentata dal viaggio primaverile di Trump in Medio Oriente, che ha visto il Presidente concludere con l’Arabia Saudita un maxi-affare che, negli anni a venire, porterà all’acquisto di armi statunitensi dal valore di 350 miliardi di dollari da parte del regno wahabita. Quando, in seguito al blocco saudita al Qatar, gli Stati Uniti hanno deciso di posizionarsi in maniera intermedia dopo le prime dichiarazioni di ostilità a Doha da parte di Trump, un analogo accordo d’ampio respiro, basato sull’acquisto di caccia statunitensi dal valore di 12 miliari di dollari da parte del Qatar, ha sancito la riconciliazione tra Washington e l’emirato mediorientale. Trump ha voluto portare avanti la sua diplomazia commerciale anche nel corso del lungo tour in Estremo Oriente che sta svolgendo in queste giornate: nel contesto imperiale della Città Proibita di Pechino, il Presidente e il suo omologo cinese Xi Jinping hanno concordato piani congiunti di investimento e commercio per un ammontare complessivo di 250 miliardi di dollari. Pechino acquisterà aeroplani Boeing e automobili Tesla, mentre al tempo stesso gli USA cercheranno di superare la loro tradizionale ostilità alla “Nuova Via della Seta” e contribuiranno a sviluppare un fondo congiunto con il Silk Road Fund della Repubblica Popolare.

Trump può considerarsi soddisfatto sotto il profilo tattico dalla sua visita in Cina, ma la sua strategia diplomatica personale presenta notevoli punti di debolezza: un’eccessiva focalizzazione sulle questioni commerciali e una tanto ostentata semplificazione delle problematiche internazionali possono condurre a numerosi errori di valutazione e ad approssimazioni grossolane su temi dell’agenda ove la complessità risulta dominante. Così è stato per l’amministrazione Trump nei suoi approcci a Paesi come Siria, Iran, Cuba, Corea del Nord e Venezuela; al tempo stesso, anche nella sfera della dialettica tra grandi potenze la postura di Trump risulta inefficace laddove si contrappone o si confronta con un progetto strategico di lungo termine, come è il caso della Cina di Xi Jinping, Paese che può comodamente inglobare la sfera commerciale all’interno di una struttura più ampia ma che sfugge alla volontà di Trump di portare a termine un accordo facendo leva sul maggiore peso relativo degli Stati Uniti. Sul lungo termine, l’art of the deal non paga dividendi geopolitici: per Trump, la sopravvalutazione della sua capacità negoziale e la sottovalutazione della dimensione di complessità della sfera internazionale rischiano di portare a nuovi, evitabili, errori nel processo decisionale.

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