C’è un filo conduttore che lega le elezioni che negli ultimi mesi hanno interessato gli Stati di tutto il mondo, in particolare in Occidente. Un sottile filo rosso che manifesta un problema che scaturisce da ogni momento in cui i popoli sono chiamati a esprimere la propria opinione nell’urna elettorale. Questo comune denominatore è l’effetto divisivo che comporta ognuna di queste tornate.Non c’è elezione, referendum o comunque una consultazione elettorale in cui gli Stati non ne escano divisi in profondità, molto spesso a metà, e con una società sempre più sperata da profonde divergenze culturali e politiche. Un effetto che comporta, nel breve termine, la mancata accettazione del risultato democratico, e nel lungo termine, la delegittimazione sociale del voto politico ottenuto con uno scarto minimo.Successe così per la Brexit, forse il voto più analizzato degli ultimi anni nel mondo. Mai il Regno Unito era apparso così diviso, così nettamente diviso fra una fazione politica e l’altra. Il risultato fu chiaro nell’indicare la divisione interna al Paese: 51,8% di sì contro 48,2% di no. Un Paese diviso a metà, tra sì e no, e poi diviso a sua volta per origini geografiche. Scozia per il remain, Londra idem, Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord per il leave. E poi diviso socialmente, con la propaganda europeista concentrata nel denigrare il voto per l’uscita dall’Unione europea ritenendolo fatto d’ignoranza, maschilismo e povertà rispetto al voto ponderato, ricco e multiculturale di chi voleva rimanere in Europa. Da quel referendum, uscì un Regno (dis)Unito, fragile, dove l’unità del popolo era stata devastata da un risultato elettorale così divisorio.Fu poi la volta di Donald Trump. Negli Stati Uniti d’America successe lo stesso. Un popolo al voto, un voto divisivo che ha spiazzato l’establishment dei partiti e che ha condannato il Paese ad una spaccatura di diversa natura. Una spaccatura ideologica, con il 46,1% di voti per Donald Trump e il 48,2% per Hillary Clinton. Tre milioni in più per la candidata perdente, perché non negli Stati chiave. E così mentre Trump otteneva 62 milioni di voti, la Clinton ne otteneva 65 milioni, ma inutili.Una divisione che è stata anche geografica, con le grandi metropoli della costa che hanno sostenuto la candidata democratica mentre la fascia centrale dell’America che ha votato per Donald Trump. Un voto che sancito infine una divisione culturale, fra un popolo considerato bigotto e razzista che avrebbe votato per Trump e un voto multietnico e di aperte vedute che avrebbe votato per la Clinton. Anche gli Stati Uniti sono quindi diventati Stati (dis)Uniti, dove la logica elettorale ha prevalso definitivamente sull’unità di popolo.Per certi versi, anche la Turchia ha vissuto, mutatis mutandis, la stessa logica divisiva. Un referendum che ha avuto un peso rilevante nella costituzione turca, modificando, di fatto, l’ordinamento dello Stato e la percezione del presidente, e che ha completamente spaccato a metà la popolazione turca. 51,41% per il sì alla riforma, 48,59% di no, per mantenere la costituzione così e finire con lo strapotere di Erdogan. Una divisione che è stata anche qui geografica, con le grandi città, la costa e il Kurdistan turco che hanno rappresentato le sacche di resistenza alle politiche di Erdogan. Dall’altra parte, Anatolia e tutta la Turchia interna hanno mantenuto fede alla loro alleanza con Erdogan ed hanno votato a favore della riforma. Ed anche qui, il popolo, si è diviso culturalmente, ma anche etnicamente e in base alla religione.Un rischio questo che potrebbe correre e che sta correndo anche la Francia dove, queste settimane, si terranno due turni elettorali che per forza di cose divideranno il Paese. Un voto frammentato e ideologicamente contrapposto dove ogni candidato rappresenta il contrario dell’altro. E sarà un ballottaggio in cui ancora di più sarà evidente questa distinzione netta, culturale e politica fra i due candidati che andranno al secondo turno. E già si parla di possibili rivolte in caso di vittoria di Le Pen, così come già si parla di due estremismi contrapposti in caso di ballottaggio Le Pen – Mélenchon. Ed anche qui, il voto per Macron rappresenta ormai il voto dell’establishment e il voto lucido e razionale che molto va di moda contro l’esaltazione dei cosiddetti populismi.Il rischio è, dunque, che le elezioni dei nostri tempi siano non tanto metodi di legittimazione democratica del consenso popolare, ma metodi di guerra civile istituzionalizzata. Nessuno accetta più il rivale come vincente, ma è tutto trasformato in un gioco al massacro che scinde i Paesi, divide i popoli e spacca gli Stati. La crisi della democrazia rappresentativa inizia a essere del tutto evidente, se nel momento della sua massima manifestazione, cioè le elezioni, si trasforma tutto in un clamoroso conflitto. Nel momento in cui la cultura democratica cede il passo al conflitto sociale e una consultazione elettorale si trasforma in una guerra culturale, allora la democrazia ha fallito cos come coloro che si ergono a suoi campioni per poi denigrarla in caso di sconfitta.
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