La crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord sembra essere arrivata a un punto di svolta importante. L’ultimo test missilistico nordcoreano, che è stato un successo per la Difesa di Pyongyang e che ha dimostrato come nessuno possa sottovalutare il potenziale bellico del Paese, ha dato un impulso importante proprio per tornare a dialogare con gli Stati Uniti. Il motivo, secondo quanto riportato dal South China Morning Post in un’intervista esclusiva con Suzanne Di Maggio, sarebbe da ricercare nel fatto che entrambi i Paesi coinvolti nella crisi sono arrivati a un punto di ritorno. Non c’è più spazio per un aumento della minaccia, a detta dell’esperta americana nonché incaricata del dialogo con Pyongyang. I due Stati hanno dimostrato che sono pronti a un confronto catastrofico, cui però, è evidente, nessuno in realtà vuole arrivare: né loro, né i partner dell’Estremo Oriente e la Russia.

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Quanto detto da Suzanne Di Maggio non va assolutamente sottovalutato, perché la sua importanza nel dialogo tra Pyongyang e Washington è assolutamente fondamentale. È stata lei a intavolare le trattative per il rilascio del detenuto statunitense in Corea del Nord, Otto Warmbier, ed è lei a tenere in piedi il confronto con il nemico nordcoreano, in particolare mettendo su quei canali di informazioni noti come Track 1 e Track 2 che hanno permesso ai delegati dei Paesi di incontrarsi a Oslo per intavolare una prima bozza di accordo per fermare l’escalation militare. E dunque le sue parole devono essere ritenuti sicuramente affidabili. Affidabili e di grande importanza, perché dimostrano come vi sia effettivamente la considerazione che la Corea rappresenti una minaccia negli Stati Uniti e non sia semplicemente la prova muscolare di due leader in lotta fra loro.

La svolta, secondo Di Maggio, sarebbe arrivata proprio il 4 luglio, con quel test missilistico che Kim aveva definito un regalo agli americani per la festa dell’indipendenza. Quel test ha cambiato tutto, perché ha dimostrato agli Stati Uniti che avevano a che fare con un avversario decisamente molto più preparato militarmente rispetto a quanto sospettato per mesi. Hwasong-14, il missile testato dall’esercito coreano, pur con i suoi limiti, e nonostante sembra non sia in grado di contenere una testata atomica, può comunque raggiungere l’Alaska. Ma soprattutto, può raggiungere le città sudcoreane e giapponesi, e può arrivare a colpire, in particolare, le basi americane in Corea e Giappone. Da quel momento, i canali di comunicazione tra Stati Uniti e Corea del Nord si sono riattivati, ed hanno fatto sì che dal Pentagono giungessero indicazioni sulla volontà americana di ricostruire le basi per dialogare. Da parte sua, Kim sa che adesso può fare delle concessioni, e che questo è il momento migliore: ha dimostrato di avere un potenziale bellico in grado di minacciare la sicurezza nazionale statunitense e dei suoi alleati in Estremo Oriente, e sa che non può proseguire nell’escalation se non vuole giungere a una guerra catastrofica, che, in ultima analisi, non farebbe altro che devastare il suo stesso Paese senza portare nulla in termini di vantaggi economici e politici.

In questo senso, non vanno sottovalutate le pressioni internazionali sia sulla Corea del Nord sia sugli Stati Uniti da parte di Russia e Cina per la fine delle crisi in Corea. Pechino e Mosca, alla vigilia del G-20 di Amburgo, si sono unite nel dichiarare con fermezza che l’unica soluzione possibile alla crisi nella regione asiatica sarebbe stata la via diplomatica. In aggiunta, negli ultimi giorni, sono arrivate le dichiarazioni di Pechino che, tramite Zhou Bo, portavoce del Ministro della Difesa, che ha affermato in un’intervista a Channel News Asia di non avere più alcun legame militare con Pyongyang e che si univa alla condanna da parte della comunità internazionale di fronte ai test missilistici della Corea. Sotto questo punto di vista, è chiaro che Kim si trova ora nella condizione di dover per forza fare delle concessioni, perché è giunto al culmine della crisi. O concede qualcosa adesso, con gli Stati Uniti preoccupati e la Cina infastidita da questa crisi, oppure le dinamiche militari in Corea potrebbero arrivare a un punto di non ritorno. Un punto di non ritorno che non vuole nessuno, né Kim, che vedrebbe il suo Paese distrutto dalla guerra, né la Corea del Sud che ha deciso la via del dialogo con le ultime elezioni, né soprattutto lo voglio Cina e Russia, che non hanno alcuna voglia di trovarsi gli Stati Uniti coinvolti in una nuova guerra, ma questa volta al loro confine.

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