Le primarie democratiche statunitensi devono ancora iniziare ma sono già entrate nel vivo. Raramente si era visto un affollamento tanto confuso tra i pretendenti alla nomination presidenziale di una delle maggiori formazioni politiche a stelle e strisce. E se a cavallo tra 2015 e 2016 il “ciclone Trump” travolse un Partito Repubblicano che presentava una situazione di complessità pressochè analoga, nell’attuale condizione l’Asinello non sembra aspettare l’ascesa di figure tanto atipiche e trasversali nella base del partito.
Gli aspiranti presidenti democratici sorgono e tramontano in maniera veloce: Kamala Harris ha già dovuto dire addio alla corsa, l’ex sindaco di South Bend, Pete Buttigieg, non decolla nei sondaggi nonostante il lobbysmo a suo favore dei giganti della tecnologia e a guidare la corsa restano esponenti della vecchia guardia democratica. Joe Biden, 77enne ex vicepresidente di Barack Obama, si difende dall’assalto di Bernie Sanders, l’inossidabile senatore 78enne del Vermont, ed Elizabeth Warren, 70enne senatrice del Massachusets. Gli astri nascenti democratici scontano una mancanza di preparazione alle sfide politiche degli Usa che è sostanziale e nemmeno compensata dalla travolgente presenza scenica e mediatica di un Trump. Al contempo, anche i “senior” risultano, troppo spesso, legati a schemi e logiche di un’era già tramontata. Tale lacuna si manifesta in maniera precipua in materia di politica estera.
I dem sono andati in ordine sparso nella corsa inaugurata dal raid ordinato dalla Casa Bianca contro il generale iraniano Qasem Soleimani. A una sostanziale e comune critica delle manovre della Casa Bianca i democratici non riescono a opporre una visione strategica di lungo respiro, dividendosi nelle solite correnti interne anche nell’ora in cui la presidenza ha offerto il fianco con una manovra spregiudicata.
Concreta e pragmatica, la Speaker della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi ha in linea teorica offerto ai democratici l’occasione per mettere all’angolo Trump, chiedendo una discussione al Congresso applicando la War Power Resolution, legge del 1973 che consente di verificare la legittimità di un intervento ordinato dalla Casa Bianca. I dem, in controllo della Camera, avrebbero potuto aggiungere una grana ben più dura del capitolo impeachment nel contesto del braccio di ferro Casa Bianca-Congresso. Ciononostante, pur approvando in prima battuta la risoluzione, i democratici non hanno colto l’opportunità di una seria sfida politica alla Casa Bianca sul terreno della legislazione bellica.
Troppo grandi le divisioni, troppo ampia la focalizzazione sugli interni della sinistra Usa. Pete Buttigieg ne ha approfittato per ricordare il suo background militare come potenzialmente cruciale per risolvere le sfide future degli Usa, mentre Joe Biden ha rubato alcuni minuti a un evento elettorale in Iowa per condannare Trump, attirandosi però le dure critiche di Sanders. L’avversario di Hillary Clinton alle primarie 2016 ha infatti rinfacciato in un’intervista alla Cnn all’ex vice di Obama il suo sostegno alla guerra in Iraq nel corso del voto sul tema in Senato del 2002. In quell’occasione Sanders votò contro, qualificandosi come oppositore cruciale dell’amministrazione Bush.
Sanders attacca Biden, pur definendolo “un amico”, in quanto principale avversario per la corsa alla nomination. Il non detto nella sua accusa contro l’approvazione di Biden del “più rovinoso abbaglio di politica estera della moderna storia americana” è il fatto che essa non fu una scelta solitaria, ma una posizione condivisa da buona parte dei Democratici. Le divisioni interne al campo democratico sono principalmente legate al fatto che, eccezion fatta per pochi esponenti carismatici come lo stesso Sanders, si tenta di mascherare la condivisione coi repubblicani di buona parte delle istanze da parte della formazione progressista in materia di posizionamento internazionale degli Usa.
Non a caso nell’ottobre scorso il New York Times ha avvertito circa il possibile rilancio da parte dei leader democratici dell’interventismo neoconservatore in caso di ritorno alla Casa Bianca. Litigare per la politica estera è, inoltre, per i democratici un utile diversivo per stornare l’attenzione dal continuo sfruttamento dell’agenda internazionale per fini interni fatto dai loro esponenti negli ultimi anni. Dal “Russiagate” all’impeachment guidato dal presunto “Ucrainagate”, la storia è nota e problematica per l’opposizione a Trump, includendo in sottofondo le vicende di faccendieri come Joseph Mifsud che toccano il nostro Paese.
Fuori dal coro e atipica la sola Tulsi Gabbard, decisa fin dalla sua discesa in campo a invertire la tendenza e a rinfacciare a Trump la mancata realizzazione della promessa di porre fine alle “guerre senza fine”. Gabbard è stata, di recente, durissima con Trump ma anche con esponenti del suo stesso partito accusati di essersi fatti sedorre dalla “guerrafondaia” Hillary Clinton in passato. La sua critica è aspra e non risparmia nemmeno i membri del gotha democratico. Gabbard, per la sua incisività sugli esteri, ha in questo campo un indubbio asso nella manica che rende necessario osservare con attenzione la sua figura di outsider.