L’1 novembre è arrivato e il completamento della commissione von der Leyen è ancora ben al di là dall’essere ufficializzato, quindi nel finale di 2019 con ogni probabilità resterà in carica la commissione Juncker.

Sarà dunque l’esecutivo europeo uscente a gestire il finale di partita del 2019, compresa la delicata fase di analisi delle manovre finanziarie dei Paesi europei. Usando un gergo simile a quello che in Italia riguarda un governo dimissionario o sconfitto alle elezioni (come il caso di Gentiloni nel 2018 insegna) la Commissione ha dichiarato di restare in attività per sbrigare gli “affari correnti”, ovvero la gestione quotidiana dei dossier e delle procedure in corso, senza pregiudicare le scelte politiche della Commissione entrante.

A guidare la Commissione, formalmente, sarà ancora l’ex premier lussemburghese, atteso però l’11 novembre da un delicato intervento chirurgico per la rimozione di un’aneurisma. Juncker cederà l’interim al fedele vicepresidente, il socialista belga Frans Timmermans, non a caso confermato anche da Ursula von der Leyen nel suo ruolo come pontiere del passaggio tra le due commissioni a guida popolare.

Il punto di caduta della questione è capire quanto a lungo lo stallo durerà. C’è il serio rischio di arrivare al 2020 e alla scadenza della Brexit (31 gennaio) senza che l’Unione abbia una guida politicamente legittimata. Emmanuel Macron ha metabolizzato lo schiaffo subito dal Partito popolare europeo proponendo un uomo ad esso gradito, il supermanager gollista Thierry Breton, come commissario all’Industria dopo la bocciatura di Sylvie Goulard. Ma la strada da fare sarà ancora lunga.

Perché l’Europa vive un periodo di vuoto e immobilismo politico senza precedenti. Troppe le faglie interne, le divisioni tra Paesi, le diverse visioni, gli arroccamenti su questioni di principio (come il rispetto delle rigide regole di bilancio), le vulnerabilità della sua classe dirigente. Troppo poca la volontà di acquisire capacità d’azione strategica in un mondo sempre più inquieto, dove non solo i grandi del mondo (Russia, Usa, Cina, India) riscoprono il dinamismo e i rapporti di forza come determinante dell’influenza internazionale ma anche attori di media taglia (pensiamo a Israele, Iran, Turchia) esercitano la strategia, la sovranità dello Stato, la strategia. L’Europa è riuscita indignarsi per i saluti militari dei calciatori turchi, meno ad agire efficacemente sullo scenario siriano, per limitarci a un esempio recente.

Della paralisi politica la commissione di Jean Claude Juncker, a cui vanno i più grandi auguri per un pieno successo dell’intervento, è stata prima responsabile. Una commissione forte con i deboli (Grecia) e debole con i forti,sbilanciata sul rigore, l’austerità, l’introspezione. Incapace, per quanto a lungo ricambiata oltre Manica, di capire la sfida della Brexit e le sue conseguenze. Una Commissione che ha reso l’Europa, per citare l’analista Pierluigi Fagan, una vera e propria “utopia antipolitica”. “Utopia”, aggiunge, “che diventa distopia e assurdo storico nel mentre s’instaura un nuovo ordine mondiale in cui grandi potenze non solo economiche, sgomitano per stabilire i rapporti di gerarchia per i prossimi trenta anni. In Europa si leggono questi lunghi elenchi di conflitti e problemi crescenti come se si stesse leggendo la gazzetta di un altro pianeta”. Ora dovrà traghettare l’Unione verso l’insediamento una Commissione sostitutiva altrettanto precaria, ancora incompleta in attesa dei membri di Francia, Romania e Ungheria e già azzoppata dalle liti interne. I presagi sono tutt’altro che positivi.





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