Quasi trentacinque milioni (c’è chi azzarda anche 45) di persone divise in un territorio compreso fra Iran, Iraq, Turchia e Siria: i curdi costituiscono il 20% della popolazione in Iraq e Turchia ed il 10% in Siria e Iran. Il popolo curdo, nonostante le sue dimensioni e un carattere così fortemente identitario, non è mai riuscito ad ottenere la nascita ed il riconoscimento di un Kurdistan libero. La ragione è da rintracciarsi non solo nel gioco delle grandi potenze, intervenuto a seguito del disfacimento dell’impero ottomano, bensì nella volontà delle grandi nazioni mediorientali che mai acconsentirono alla nascita di uno stato talmente esteso al centro del Medio Oriente.

Dal primo conflitto mondiale a oggi, le popolazioni e le regioni curde all’interno di Turchia, Iran, Siria e Iraq sono rimaste al centro dei tumulti geopolitici contemporanei, dalla war on terror post-11 settembre fino alle proteste in Iran delle ultime settimane. Tuttavia, sarebbe un errore considerare il mondo curdo come un’amalgama omogenea: ognuna delle quattro regioni, infatti, gode di condizioni geopolitiche differenti e di diversi gradi di autonomia. Sebbene condividano un’identità etnica comune e siano prevalentemente musulmani sunniti, i curdi non hanno rappresentanti transfrontalieri, politiche comuni o un’unità di difesa militare congiunta. Ciò li espone a un ulteriore rischio di attacco da parte degli stati della regione.

Mappa di Alberto Bellotto

Il Kurdistan turco

L’attentato a Istanbul di alcune settimane fa è l’espressione paradigmatica del problematico rapporto tra Ankara e il mondo curdo. Se da un lato il governo centrale alterna da decenni il metodo del bastone e carota, i curdi di Turchia vivono una schizofrenia tra rivendicazioni, angherie e predominanza della voce del loro braccio armato, la cui storia spesso offusca le richieste pacifiche dal basso. Dal canto suo, negli ultimi venti anni Erdogan ha affrontato la questione curda soprattutto con un occhio alle proprie esigenze politiche. Del resto, la designazione del Pkk come organizzazione terroristica e il tira e molla nella NATO per costringere i Paesi scandinavi a trattare il rimpatrio di cittadini curdi, è la prova di come le cose vadano ulteriormente complicandosi.

Eppure, il rapporto tra Erdogan e il mondo curdo non era affatto cominciato in maniera burrascosa. Anzi, erano in molti a pensare che il mondo curdo avrebbe guadagnato molto dall’ascesa del sultano. I passi del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) per normalizzare l’identità curda, introducendo pacchetti di riforme negli stessi anni in cui tentava di aderire all’Unione europea, hanno aiutato Erdogan nel conquistare il cuore dei curdi. Sebbene le riforme dell’Akp facessero parte del processo di adesione all’Ue e fossero anche progettate per minare l’influenza dell’esercito sulla politica, questi passi hanno indirettamente migliorato lo status e le condizioni della popolazione curda della Turchia. Per molti curdi, l’Akp risultava più inclusivo di altri partiti di opposizione che non accennavano ad alcun tipo di riforma. Quando il processo di pace è iniziato nel gennaio 2013, molti curdi credevano che Erdogan e Abdullah Öcalan, avrebbero raggiunto un accordo e, dunque, una tregua.

Un dimostrante curdo con una bandiera che raffigura il laeder del Pkk Abdullah Ocalan (Foto: EPA/WAEL HAMZEH)

Tuttavia, i negoziati alla fine non sono riusciti a produrre una pace sostenibile tra le parti. Ciò è dovuto alla decisione del Partito democratico popolare filo-curdo (Hdp) di candidarsi alle elezioni del giugno 2015 come partito unico invece che come candidati indipendenti. L’Hdp ha sostenuto che il processo di pace avrebbe avuto successo solo se l’Akp avesse considerato l’Hdp come un attore politico legittimo e avesse tollerato i suoi interessi politici. Alla fine, l’Hdp è riuscito a superare la soglia del 10% per la rappresentanza elettorale in parlamento, conquistando 80 seggi. Il successo dell’Hdp ha cambiato la composizione del parlamento e l’Akp ha perso la maggioranza per la prima volta da quando è salito al potere nel 2002. Dopo la battuta d’arresto elettorale dell’Akp, nell’estate del 2015 sono ricominciati gli scontri tra le forze di sicurezza turche e il Pkk.

Le elezioni del 2023 si avvicinano, con tutto il carico che queste portano. L’evidente attrito tra i due riferimenti politici dei curdi di Turchia, Abdullah Öcalan e Selahattin Demirtaş, forniscono sia possibilità che ostacoli per Erdogan. I negoziati segreti con Öcalan potrebbero facilitare le divisioni all’interno del movimento curdo, privando alcuni elettori curdi del loro sostegno all’opposizione nelle elezioni del prossimo anno. Alcuni curdi, specialmente quelli che vivono nel sud-est della Turchia, potrebbero boicottare le elezioni se Öcalan li invitasse a farlo.

Il Kurdistan iraniano

I curdi iraniani sono tornati alla ribalta nelle ultime settimane, sulla scia delle proteste che stanno mettendo a ferro e fuoco l’Iran. Tutto nasce dal fatto che la giovane Mahsa Amini, simbolo delle proteste antiregime, fosse originaria di Saqqez, capoluogo dello shahrestān di Saqqez, nella provincia iraniana del Kurdistan, porzione nord-occidentale del Paese, dove vivono circa 8 milioni i curdi. Le proteste di questi giorni devono essere apparse un’occasione ghiotta per il regime al fine di intensificare la stretta sui gruppi curdi, anche in Iraq. Nell’area, infatti, Mahsa Amini è stata assurta a eroina etnica ed è proprio qui che sono cominciate le ribellioni.

Le forze di sicurezza, che a metà novembre sembravano aver iniziato a perdere il loro punto d’appoggio nelle città di Izeh nella provincia di Khuzestan e Malekshahr nella provincia di Esfahan, hanno continuato a sparare contro i manifestanti, uccidendo almeno due ragazzini a Malekshahr e molti altri a Izeh, tra cui un bambino di 10 anni. Il bambino-Kian Pirfalak-è diventato subito una nuova icona delle proteste. Gli attacchi sono stati così brutali che la Repubblica islamica ha scelto di non assumersene la responsabilità. A seguire si è infiammata anche a Mahabad, una piccola città a maggioranza curda nella provincia dell’Azarbaijan occidentale, dove i residenti hanno barricato le strade e si sono mossi in formazioni tattiche per prendere il controllo della città. La Repubblica islamica ha schierato veicoli militari e represso i manifestanti.

Proteste nel Kurdistan iraniano (Foto: EPA/Gailan Haji)

I curdi in Iran subiscono una discriminazione istituzionale che ne pregiudica l’accesso servizi di base come l’alloggio, il lavoro e l’istruzione. La situazione è particolarmente complessa per coloro che diventano operativi, o sono percepiti come tali, nelle attività politiche curde. Le autorità non tollerano qualsiasi attività collegata ai gruppi politici curdi e a coloro che sono coinvolti si aprono le porte degli arresti arbitrari, detenzioni prolungate e abusi fisici.

Questo giustifica, secondo il governo di Teheran, le incursioni della Repubblica Islamica in Iraq, considerata la base dei ribelli curdi. Tra questi, il Komala, partito del Kurdistan iraniano e il Kdpi, il Partito democratico del Kurdistan dell’Iran. Le relazioni tra Iran e il Kurdistan iracheno restano suscettibili al quadro internazionale e non solo alle vicende interne: la questione irrisolta di un ritorno all’accordo nucleare e delle sue possibili conseguenze, la graduale riduzione dell’impronta militare statunitense in Iraq e del rafforzamento al potere dei conservatori iraniani. La risposta dell’Iran al referendum curdo iracheno per l’indipendenza del 2017 e la sua soppressione del rilancio dell’attività armata da parte dei partiti curdi iraniani che operano dall’Iraq chiarisce che Teheran non esiterà a intervenire per difendere i suoi interessi di sicurezza negli anni a venire.

I curdi in Siria

I curdi sono il 5% della popolazione siriana, il che ne fa la più grande minoranza etnica del Paese. Sono concentrati prevalentemente nel nord e nel nord-est e, a partire dallo scoppio della guerra civile, la maggior parte delle regioni a maggioranza curda in Siria sono state inglobate nella cosiddetta Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, meglio conosciuta come Rojava.

La condizione dei curdi siriani è vittima triplice delle pressioni esercitate dalla Turchia, dalla guerra civile che insanguina il Paese e dalle vicende legate alle incursioni dello Stato Islamico. I Curdi siriani sono tornati sotto attacco da quando, il 20 novembre scorso, il presidente Erdogan ha lanciato l’operazione aerea “Claw-Sword” nel nord-est della Siria come rappresaglia per l’attacco mortale a Istanbul il 13 novembre. Ankara ha attribuito l’attacco, che ha provocato sei morti e decine di feriti, all’Ypg curdo siriano (Unità di protezione del popolo curdo), che ha fortemente negato la responsabilità dell’attentato.

I combattenti curdi dell’YPG a Kobane in Siria (Foto: LAURENCE GEAI/SIPA/1502131750)

Le Forze democratiche siriane (Sdf) dominate dai curdi, un’alleanza di milizie sostenuta dagli Stati Uniti e dominata dall’Ypg, accusa la Turchia di usare i bombardamenti come pretesto per lanciare un’offensiva transfrontaliera a lungo pianificata. Se la Turchia mette in atto le sue minacce, “saremo costretti ad ampliare la portata di questa guerra” per includere l’intera area di confine, ha affermato Mazloum Abdi, comandante in capo delle Sdf. Le Sdf, sostenute dagli Stati Uniti, hanno guidato la lotta contro l’Isis, respingendo lo stato islamico da aree strategiche vitali, inclusa la loro capitale de facto Raqqa.

Ma la Turchia considera l’Ypg un gruppo terroristico, vedendolo come il braccio siriano del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Tra il 2016 e il 2019, la Turchia ha condotto tre importanti operazioni nel nord della Siria contro le milizie e le organizzazioni curde e il presidente turco ha più volte affermato di voler creare una “zona di sicurezza” di 30 km lungo il confine meridionale del Paese. Questo “diritto” turco di bombardare il confine è un residuo di un vecchio patto, chiamato “accordo di Adana” del 1998, che consentiva ad Ankara di entrare in Siria per inseguire “terroristi” legati al Pkk. Ciò ha eroso la sovranità della Siria, alla quale il regime siriano ha acconsentito perché temeva un’invasione turca.

I curdi siriani non si fidano nemmeno più degli Stati Uniti. Washington non è intervenuta quando la Turchia ha preso Afrin nel 2018 e ancor meno nell’ottobre 2019, quando ha conquistato Tal Abyad e Ras al-Ain. In ogni occasione, gli ausiliari arabi e turkmeni dell’esercito turco hanno effettuato une vera pulizia etnica della popolazione curda. L’Occidente sta fornendo aiuti di emergenza alla regione, ma questo non è sufficiente per un processo di ricostruzione, che non è nell’agenda dei donatori. Inoltre, gli aiuti umanitari ed economici generano una spudorata corruzione, proprio come in Afghanistan. La popolazione è frustrata dal fatto che gli aiuti vengano dirottati da una minoranza che si autoarricchisce e questo rischia di fungere da carburante per una recrudescenza dello Stato Islamico.

Mappa di Alberto Bellotto

I curdi in Iraq

Le vicende dei curdi iracheni sono invece legate non solo ai tumulti della regione, ma suscettibili anche del rapporto complesso tra Iran e Iraq: allo scoppio della guerra tra le due nazioni, infatti, le autorità irachene ordinarono le deportazioni di migliaia di curdi in Iran. I deportati erano in maggioranza donne, vecchi e bambini, mentre i maschi venivano arrestati e imprigionati. I curdi costituiscono circa un quinto della popolazione irachena e vivono in maggioranza nelle tre province dell’Iraq settentrionale che vanno a formare nell’insieme il Kurdistan iracheno.

Al momento, la situazione dei curdi iracheni li vede stretti in una morsa a tenaglia da parte di Turchia e Iran. L’Iraq sta sigillando i suoi confini con la Turchia e l’Iran per contrastare le frequenti violazioni dei due Paesi alla propria sovranità nazionale. Lo ha deciso il neo premier Mohammed Shia’ al-Sudani, che ha ordinato di rafforzare tutte le postazioni nelle aree coinvolte. A questo proposito verranno inviate nuove armi ed equipaggiamenti che contribuiranno al miglioramento del monitoraggio e alla prevenzione degli sconfinamenti. L’unico elemento incerto riguarderà proprio la protezione del Kurdistan iracheno, recentemente preso di mira da Teheran per annientare i gruppi interni di opposizione curdi. I vertici militari di Baghdad non hanno, infatti, nominato la regione tra quelle che subiranno un aggiornamento del cordone di sicurezza. Di contro, però, Erbil può contare su numerosi partner internazionali.

Tra le proteste nel nord-ovest dell’Iran per la morte di Mahsa Amini, il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane (Irgc) ha attaccato i siti di gruppi curdi iraniani dissidenti di stanza proprio tra i governatorati iracheni di Erbil e Sulaymaniyah. L’Iran accusa i gruppi ribelli curdi iraniani in esilio di alimentare la recente insurrezione nel nord-ovest del Paese. L’unificazione del Partito democratico del Kurdistan – Iran (KDP-I) ​​- e del Partito democratico del Kurdistan iraniano (PDKI) nell’agosto 2022 ha probabilmente pre-segnalato a Teheran una potenziale escalation di ribelli.

Combattenti Peshmerga nel Kurdistan iracheno (Foto: EPA/GAILAN HAJI)

Gli analisti regionali, in questa fase, vedono l’Iran e la Turchia alle prese con il tentativo di legittimare la copertura per i loro interventi in Iraq attraverso la partecipazione al prossimo vertice di Amman sull’Iraq. Il 20 dicembre nella capitale giordana, Amman, è previsto un summit che coinvolgerà Iran, Turchia, alcuni Paesi arabi e la Francia. Non è noto se gli Stati del Golfo parteciperanno a questo incontro, in un momento in cui Teheran vorrebbe allontanare l’Iraq dall’influenza del Golfo, poiché i Paesi chiave della regione sono impegnati a riorganizzare le loro relazioni con le maggiori potenze mondiali.

I rumors sostengono che l’Iran stia lavorando dietro le quinte per garantire che il vertice iracheno si svolga senza la partecipazione del Golfo. Questo consentirà a entrambe le potenze regionali non arabe di legittimare i loro interventi nel nord e nell’est dell’Iraq contro i curdi e di ampliare la loro invasione territoriale senza timore di alcuna risposta tangibile da parte di Baghdad. L’Iran potrebbe stare sfruttando la distrazione degli Stati del Golfo circa la revisione del loro impegno con le maggiori potenze, inclusi gli Stati Uniti e la Cina, poiché gli sviluppi di petrolio e gas hanno reso la regione una calamita per le principali nazioni industrializzate. L’obiettivo di Teheran potrebbe, dunque, andare ben oltre il controllo politico dell’Iraq, cercando di divenire partner con Francia e Turchia nei progetti economici in iracheni. Sulla pelle dei curdi.

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