Negli anni recenti la Cina ha costruito un impero economico nell’Africa sub-sahariana, avvantaggiata dal fatto che gli occhi delle potenze occidentali fossero puntati sulla guerra al terrore e dalle difficoltà della Francia, unico concorrente di livello, la cui presenza è sempre più invisa alle nuove generazioni di africani per via dei drammi del colonialismo e del neocolonialismo.

La Cina ha imparato dagli errori commessi dagli europei nel continente più martoriato dalla corsa imperialistica tardo-ottocentesca ed insanguinato dalle guerre civili durante e dopo la guerra fredda, affinando l’arte diplomatica del corteggiamento e regalando stadi, maxi-opere, concedendo prestiti a fondo perduto e tonnellate di aiuti umanitari. È così che Pechino è riuscita a conquistare il continente nero ma, oggi, questo status egemonico ancora non consolidato è sfidato da un nemico invisibile e inaspettato: il Covid-19.

La diplomazia degli aiuti sanitari nel continente

La Cina è il principale donatore di aiuti e rifornitore di beni sanitari nell’Africa sub-sahariana. Secondo un articolo del The Africa Report, alla fine di marzo, ogni singolo paese del continente avrebbe ricevuto dalla Jack Ma Foundation un carico di 100mila mascherine, 20mila test diagnostici e 1000 tute protettive. Huawei, in maniera simile, sta offrendo aiuti in tutti i paesi africani in cui opera, mentre China Merchants ha trasportato un milione di mascherine in Gibouti e Hunan Construction, gigante dell’edilizia, sta offrendo supporto al Senegal.

I grandi privati cinesi hanno risposto all’appello del governo, contribuendo in maniera significativa a migliorare l’immagine di Pechino nel continente. Gli aiuti umanitari, intesi come donazioni, sono incredibili in termini quantitativi se paragonati a quelli inviati ai paesi europei: 65 tonnellate di test diagnostici ed equipaggiamento protettivo per la Repubblica Democratica del Congo, 6 milioni di maschere ed un milione di test per l’Etiopia, un ospedale da campo costruito in Zimbabwe.

Il 6 aprile, un aereo dell’Air China è atterrato ad Accra, la capitale del Ghana, trasportando diverse decine di tonnellate di beni, che sono stati poi redistribuiti in 18 paesi, tutti situati nell’Africa sub-sahariana.

Nonostante il protagonismo e l’impegno in prima linea, alcuni eventi hanno danneggiato l’immagine della Cina presso gli africani, ed i rapporti bilaterali con diversi paesi hanno subito un raffreddamento.

Le accuse di razzismo scuotono la Cinafrica

I media occidentali anglofoni hanno dato ampio risalto mediatico ai presunti maltrattamenti ricevuti da studenti e lavoratori africani di stanza in Cina, in special modo nella città di Guangzhou, che verrebbero sottoposti a molestie, quarantene e controlli arbitrari con l’obiettivo di fermare la “seconda ondata”, ossia la nascita di nuovi focolai importati dall’estero, e la notizia è rimbalzata rapidamente nell’Africa nera, finendo sulle prime pagine dei più grandi quotidiani di Kenya, Uganda, Sud Africa, Nigeria e altri paesi.

L’attenzione mediatica ha, presto, assunto i contorni di una crisi diplomatica in alcuni contesti, come palesato dall’intervento di un parlamentare kenyota, Moses Kuria, che ha invitato i cinesi presenti nel paese “ad andarsene con effetto immediato [perché] come potete incolpare gli africani per un virus che avete prodotto nel laboratorio di Wuhan? Tornatevene a casa!”

Come Kuria, altri politici kenyoti hanno cavalcato l’onda dell’indignazione, utilizzando toni ancora più drastici, ad esempio agitando lo spettro delle deportazioni o invitando i “kenyoti a seguire la Bibbia, che dice occhio per occhio”; parole queste ultime, di un altro parlamentare, Charles Njagua.
In Nigeria, l’ambasciatore cinese a Lagos, Zhou Pingjian, è stato ripreso in un video, poi caricato su Twitter e diventato virale, in cui viene ufficialmente redarguito ed obbligato a guardare uno dei video circolanti in rete inerenti gli abusi sugli africani commessi in Cina.
Anche in Ghana e Uganda sono state intavolate delle discussioni con gli ambasciatori cinesi in merito all’argomento, mentre dichiarazioni di turbamento e sconcerto sono state espresse da una decina di paesi in tutto. Infine, la questione è arrivata sul banco dell’Unione Africana, anch’essa intenzionata ad approfondire il contenuto dei video sotto accusa, dopo che il 10 aprile un gruppo di ambasciatori di paesi africani a Pechino ha firmato una denuncia formale.
La replica da parte di Pechino non si è fatta attendere ed il Global Times, il megafono del Partito Comunista Cinese, il 17 aprile ha pubblicato un articolo dal titolo emblematico: “Western media’s futile attempt to drive China, Africa apart” (Il vano tentativo dei media occidentali di allontanare Cina e Africa). Il contenuto, qualora il titolo non fosse già esplicativo di per sé, è ricco di accuse lanciate all’indirizzo dei media anglofoni che hanno riportato e mistorto la notizia “nel tentativo di alimentare ostilità fra Cina e Africa”, mentre ricorda al pubblico africano gli aiuti offerti da Pechino nella lotta al Covid-19.

La questione del debito

Il pil africano sta rapidamente crollando per via della pandemia e con esso diminuiscono sensibilmente anche le capacità di pagare gli interessi sui debiti accumulati. La Cina, essendo titolare del 20% del debito totale attualmente aperto dai governi dell’intero continente, è la prima interessata dallo scenario di una bancarotta a catena e, complice anche la necessità di non perdere terreno ulteriore dopo lo scandalo sulle discriminazioni, ha recentemente annunciato che “supporta la sospensione del ripagamento del debito per i paesi meno sviluppati e darà il proprio contributo in base al consenso raggiunto nel G20”.

L’iniziativa di Pechino avviene sullo sfondo degli appelli del presidente francese Emmanuel Macron, preoccupato per la situazione economica dei paesi africani, e della decisione del Fondo Monetario Internazionale di cancellare sei mesi di pagamenti del debito a 25 paesi, 19 dei quali africani.

In attesa di capire come si muoverà Pechino, considerando che si tratterebbe di perdere decine di miliardi di dollari in un momento di tremenda crisi, è possibile elaborare alcuni ipotesi. Contrariamente all’idea cristallizzatasi in Occidente di creditore estremamente rigoroso, Pechino ha cancellato interi debiti più volte negli anni recenti e, nel caso dei paesi africani, si tratta di una pratica costante. Nel 2005 erano stati condonati prestiti a tasso zero per 10 miliardi di dollari, nel 2009 erano stati cancellati 150 prestiti in 32 paesi africani e, infine, nel 2018, Xi Jinping in persona aveva annunciato la cancellazione del ripagamento dei prestiti a interesse zero intergovernativi concessi da Pechino a tutti i paesi del continente.

Tuttavia, occorre evidenziare che i prestiti a interesse zero rappresentano soltanto una piccola parte dei prestiti accesi annualmente dai governi e dalle imprese africane con entità cinesi. Ad esempio, dei 60 miliardi di dollari di prestiti attivati dai imprese e governi africani nel corso del Forum di Cooperazione Cina-Africa del 2015, soltanto il 9% era di questa natura.

Si tratta, comunque, di numeri significativi, al di là delle percentuali, che dimostrano le abilità diplomatiche del dragone, capace di alternare rigore e umanitarismo a seconda dell’esigenza, nella consapevolezza di agire in un continente estremamente sensibile agli argomenti e alla percezione del neocolonialismo e del capitalismo di rapina, siano essi veri o presunti. Per questa ragione, la discesa in campo di Macron in favore del Terzo Mondo è improbabile che riscuota successo: la dirigenza cinese sa come muoversi, quali politiche intraprendere e quali no, ed è stata proprio la Francia a fare da scuola.

Il governo cinese non ha lasciato che Parigi e FMI cavalcassero l’onda del risentimento contro il debito, annunciando immediatamente di stare elaborando un proprio piano, coordinato in sede internazionale, per trovare una soluzione adeguata al contesto africano. Tuttavia, restano delle incognite.

Innanzitutto la questione delle discriminazioni anti-africane ha avuto un effetto dirompente ed inaspettato nell’Africa nera, soprattutto in Kenya e Nigeria, due paesi-chiave rispettivamente per il controllo della parte occidentale ed orientale del continente, mostrando quanto fragile e precario sia l’ordine costruito da Pechino negli anni recenti.

Inoltre, non è da sottovalutare un’eventuale strumentalizzazione, da parte occidentale, della soluzione cinese al debito africano. Infatti, se anche Pechino dovesse condonare parzialmente o integralmente diversi debiti, media e politici euroamericani potrebbero accusare tali azioni di essere poco incisive e circoscritte, evidenziando come i debiti cancellati rappresentino solo una parte irrilevante del’intera somma dovuta. Come già accaduto nel caso dello scandalo sulle discriminazioni di Guangzhou, alcune parti della società civile e della politica potrebbero unirsi al fronte occidentale ed alimentare le ostilità.

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