A quasi vent’anni dall’attacco alle Torri Gemelle, il mondo intero sembra aver ceduto su tutta la linea nei confronti dei talebani. E proprio mentre a Doha si tengono gli storici colloqui di pace che ricollocano internazionalmente questi ultimi, la Cina sembra tornare a corteggiare gli eredi del mullah Omar.

Un’intesa di vecchia data

Come ricorda il celebre analista Brahma Chellaney, l’ironia del destino volle che, proprio l’11 settembre 2001, mentre gli Stati Uniti finivano sotto attacco, alti funzionari cinesi firmavano un accordo di cooperazione economica e tecnica con gli allora talebani afghani al potere, in quel di Kandahar. Di lì a poco sarebbero diventati il pubblico nemico numero uno del mondo occidentale. L’accordo commerciale non sorprese nessuno, poiché Celeste Impero e Afghanistan detengono delicatissime relazioni commerciali fra loro fin dai tempi della leggendaria dinastia Han. Il sostegno cinese all’Afghanistan si intensificò durante le prime battute della Guerra Fredda per poi congelarsi durante la rottura tra i due giganti d’Asia, Cina e Unione Sovietica. Superata l’impasse dell’invasione sovietica, le relazioni tra i due Paesi sono andate via via normalizzandosi, soprattutto da un punto di vista commerciale.

Il Pakistan è da lungo tempo chaperon di questo rapporto: del resto è qui che i talebani afghani hanno trovato assistenza e rifugio dopo essere stati estromessi dal potere nel 2001. Il Paese, vero vincitore dell’accordo tra Usa e talebani, ha formalmente protetto i progetti cinesi in Afghanistan da qualsiasi tipo di aggressione politica e militare: ne è un esempio la grande miniera di rame di Aynak, “protettorato” cinese attenzionato dalla Metallurgical Corp. of China dal 2007. Stessa sorte non è capitata a simili progetti a firma indiana, che invece sono stati bersagliati da attacchi terroristici poiché, presumibilmente, privi di una nazione sponsor sul territorio.

Gli interessi cinesi

In un momento in cui la Belt and Road vive una fase di stallo e ridefinizione, Pechino ha bisogno di alleanze stabili per tutelare la sua grande creazione e promuovere i suoi interessi regionali.

Le mire cinesi, però, non si limitano a strade ed hub commerciali, ma si trovano sotto il suolo afgano. Il Paese è notoriamente una miniera a cielo aperto: ferro, cobalto, rame, oro, litio. Soprattutto quest’ultimo sembrerebbe essere la mira principale delle grandi potenze, considerata l’importanza fondamentale che questo metallo industriale ha assunto nell’epoca della telefonia mobile e dei pc portatili. Questa enorme ricchezza, semisconosciuta fino a qualche decennio fa, portò il New York Times nel 2010 a definire l’Afghanistan come una potenziale “Arabia Saudita del litio”, in grado perfino di oscurare i traffici di oppio e stupefacenti che da sempre hanno costituito la spina commerciale della black economy afgana. Una potenzialità inespressa che fa gola a molti, soprattutto a Pechino, Paese esportatore di tecnologia a basso costo.

Le ragioni del corteggiamento cinese verso i talebani però nascono anche dal tentativo di mantenere lo status quo nello Xinjiang. L’obiettivo di Pechino è quello di prevenire ondate di nuovo jihadismo terrorista lì dove migliaia di Uiguri vengono detenuti e perseguitati, una drammatica ed annosa questione a proposito della quale anche il mondo islamico si è voltato dall’altra parte. Così, trovandosi al centro di equilibri così precari, anche i talebani afghani si sono turati il naso nei confronti dei fratelli islamici perseguitati dal Dragone. Una sorta di ruolo da intermediari, il loro, volto a instillare un’intesa fra attori chiave islamici, soffocando qualsiasi tentativo di rivolta. È il prezzo da pagare per ripulire la propria immagine internazionale dopo venti anni di guerra al Terrore.

Il paradosso

L’annuncio del ritiro americano dall’Afghanistan e l’avvio dei colloqui di pace a Doha hanno costretto Pechino a dover affrettarsi per stringersi ai talebani, intensificando i rapporti con i loro alti rappresentanti.
A rifletterci bene, Afghanistan e Cina non avrebbero davvero nulla in comune. Da un lato, una gigante potenza dominante, dall’altro uno stato da ricostruire. Tanto meno avrebbero nulla in comune il regime dei talebani e il governo di Xi Jinping. I primi appartengono ad una tradizione arcaica, con un assetto da milizia, profondamente intrisi di un Islam medievale. Gli stessi che fecero saltare in aria i meravigliosi Buddha di Bamyan in preda alla loro furia iconoclasta. Dall’altro lato c’è il colosso del XXI secolo, la Cina, dove proprio il culto buddhista rappresenta una delle sfumature della fede. Lo stesso Paese che, nel tentativo di plasmare una nuova identità nazionale, ha progettato l’estinzione su larga scala dell’identità islamica, nel tentativo di assimilarla nella monocultura Han. Nemmeno queste colossali divergenze, che mescolano tradizione, lingua, religione, identità, reggono di fronte al comandamento del pecunia non olet.

Cosa ci guadagnano i talebani

Chiariti gli interessi cinesi nei confronti dei talebani, occorre capire cosa guadagnano questi ultimi nei confronti di Pechino. Inutile dire che la prima delle ragioni è ovviamente di prestigio internazionale: avere uno sponsor commerciale come la Cina alle spalle, significa avere una protezione d’acciaio nel contesto della nuova Guerra Fredda.

Ma, oltre a ciò, energia e infrastrutture sono le parole chiave di questa strana partnership. La Cina avrebbe promesso ai talebani un gigantesco programma volto a costruire strade, ponti e collegamenti di vario tipo su tutto il territorio nazionale, creando dei network di strade veloci a sei corsie fra le principali città afghane, in grado di far fiorire il commercio nazionale su gomma. A questo si aggiunge la promessa di un’elettrificazione massiccia del Paese, congiuntamente alla realizzazione di hub energetici che faranno transitare petrolio e gas attraverso il territorio afghano.
Promesse in grado di esercitare fascinazione politica sui talebani alle prese con la ripulitura della propria immagine internazionale. Da più parti, infatti, le loro voci ufficiali pongono l’accento sul trattamento da “pari” che Pechino starebbe riservando loro e alla loro nazione: non più la no man’s land palestra del Terrore, bensì una nuova terra di matcha e miele.