La Chiesa cattolica è dinanzi ad un bivio esistenziale: passato e futuro, dove per passato si intende Occidente e per secondo si intende il resto del mondo, più nello specifico l’Oriente. Il primo sembra avere come capolinea la morte, mentre il secondo promette un possibile ringiovanimento. Il primo è fonte di sicurezza, perché conosciuto, mentre il secondo incute un certo timore perché ignoto, perché chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, ma non sa quello che trova.

Non è ancora giunto il momento della scelta, ma la Chiesa cattolica sa che i tempi stringono e che quella che papa Francesco ha ribattezzato la “terza guerra mondiale a pezzi”, ovverosia lo scontro egemonico tra Occidente e Oriente che ha riportato il pianeta ai tempi della Guerra fredda, va diventando sempre più guerra, sempre più mondiale e va inghiottendo un numero crescente di pezzi.

Scegliere tra Occidente e Oriente non sarà semplice, e forse una vera e propria scelta non ci sarà – perché il Vaticano, la rappresentanza fisica dell’unica potenza spirituale del globo, pensa e agisce nel rispetto di un orizzonte temporale incomprensibile all’Uomo, perché escatologicamente orientato alla fine dei tempi –, ma se è vero che soffermarsi eccessivamente sul futuro conduce a trascurare il presente, e che trascurare il presente porta ad uccidere il futuro, ciò significa i diplomatici in abito talare saranno prima o poi chiamati ad affrontare uno dei fascicoli più scottanti e sensibili dell’attualità: Taiwan.

La Chiesa tra due fuochi, tra due Cine

Il cerchio attorno a Taiwan va stringendosi – a meno che il caso Lituania non sia precorritore di un’inversione di tendenza – e le acque dell’Indo-Pacifico sono sempre più agitate. Lo Stato insulare non è mai stato diplomaticamente isolato come oggi, dal momento che soltanto quindici Paesi continuano a riconoscerlo e che negli ultimi tre anni hanno avuto luogo ben tre disconoscimenti: El Salvador, Isole Salomone e Kiribati.

Nel novero dei Paesi che continuano a preferire Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese, anteponendo (per ora) la simpatia politica al potere economico, risaltano per importanza il piccolo ma geostrategico Paraguay e il minuscolo ma universale Vaticano. Quest’ultimo, ad ogni modo, da quando ha avuto inizio l’era Bergoglio-Parolin, ha cominciato a lavorare con tenacia e senso di abnegazione ad un obiettivo: il superamento della condizione di reciproco disconoscimento in piedi dal lontano 1951.

Perché la Chiesa cattolica voglia dialogare con l’impenetrabile Cina di Xi Jinping è chiaro: trattasi del mercato delle anime più vasto del pianeta – dove il Vangelo ha trovato un’accoglienza calorosa a livello popolare – e, non meno importante, della potenza trainante della transizione multipolare. Due peculiarità che hanno incoraggiato il Papa a tentare l’azzardo, delegando all’abile Pietro Parolin l’onere-onore di fare breccia nella Grande Muraglia con meta la Città Proibita, perché la Chiesa del 21esimo secolo è tanto alla ricerca di nuovi spazi in cui prosperare quanto di collaboratori che ne condividano la weltanschauung.

Come la Chiesa cattolica abbia dimostrato all’Impero celeste volontà di dialogo e disponibilità al compromesso è altrettanto noto: a mezzo dell’accordo sulla nomina dei vescovi, siglato nel 2018 e rinnovato l’anno scorso. A partire da quell’accordo, che ha diviso il clero, irritato l’amministrazione Trump e preoccupato la dirigenza taiwanese, le relazioni tra i capi dei due imperi più antichi del mondo sono migliorate gradatamente, raggiungendo l’apogeo nel corso della pandemia di Covid19.

Le ultime indiscrezioni

Non si può comprendere il perché del faccia a faccia tra Joe Biden e Francesco ignorando il contesto all’interno del quale è nato e maturato, cioè la corsa all’Indo-Pacifico. Una corsa che vede come indispensabile la salvaguardia dell’indipendenza e dell’integrità di Taiwan – trattandosi dell’avamposto più importante della cosiddetta catena di isole che circonda la Cina terrestre – e alla quale il Vaticano, suo malgrado, sta prendendo parte dal 2018.

Perché i due capi di Stato si siano incontrati è stato evidente fin da subito, perlomeno ai sinologi e ai vaticanologi più stagionati: verificare l’attendibilità delle indiscrezioni secondo cui Pechino avrebbe chiesto alla Santa Sede di rompere i rapporti con Taipei e, in caso affermativo, mettere sulla bilancia un contrappeso di pari o superiore misura.

Se le voci di negoziati ultrasegreti tra le diplomazie vaticana e cinese celino del vero non è dato saperlo, così come altrettanto avvolto dal mistero è l’olocausto offerto da Biden al Vescovo di Roma. Una cosa, però, sì, è più che certa: la Chiesa si trova tra due fuochi, o meglio tra due Cine, e prima o dopo la realpolitik la obbligherà ad andare in direzione dell’una o dell’altra – sebbene in modi eterodossi, quasi nebulosi, che agli osservatori meno attenti potrebbero persino sfuggire. Perché quella che Francesco di Buenos Aires ha ribattezzato la terza guerra mondiale a pezzi va diventando sempre più mondiale, inghiottendo sempre più pezzi, e questo genere di conflitto non ammette eccezioni alla regola del “vietato non allinearsi”.





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