Pedro Castillo è stato destituito da Presidente del Perù il 7 dicembre scorso, passando direttamente dal Palazzo del Governo di Lima al Tribunale della città dopo esser stato arrestato al termine di una giornata dai toni tragici che segna la cronica instabilità del Paese andino.
La caduta di Castillo
L’ex campesino eletto a stretta maggioranza al ballottaggio del 2021 nelle presidenziali che lo vedevano opposto a Keiko Fujimori con il 50,13% dei voti è stato sfiduciato dal Congresso e arrestato dopo aver tentato di sciogliere d’imperio il Parlamento senza i necessari due voti di sfiducia necessari. Un atto, questo, che ai sensi della Costituzione peruviana è effettivamente al di fuori delle prerogative del presidente. Ma che si inserisce nel quadro di una lunga crisi politica e di conflittualità tra la presidenza e il Congresso che mostra le spaccature del Paese. E l’uso tutt’altro che istituzionale dei poteri da parte di ogni ramo dello Stato peruviano è stato palese anche nell’era Castillo. In cui è proseguita la cronica, fragile instabilità del Paese.
Alle origini degli scontri il precedente storico dell’auto-golpe di Alberto Fujimori che nel 1992 sciolse arbitrariamente il Congresso e l’introduzione della Costituzione del 1993, la cui interpretazione ampia ha portato all’introduzione di un potere di scrutinio pressoché totale del parlamento su un governo formalmente presidenzialista. A cui, nell’era della pandemia, della crisi energetica e delle proteste, presidenti eletti a capo di fragili maggioranze hanno risposto cercando di utilizzare i poteri emergenziali salvo poi trovarsi a constatare che i propri cartelli elettorali, di destra o di sinistra che fossero, erano semplici coalizioni posticce nel momento in cui la loro popolarità veniva meno. E comprendere il caso Castillo è più facile se si guarda alla storia recente di un Paese in fiamme che ha nella neo-presidente Dina Boluarte, subentrata a Castillo in quanto sua vice, il sesto capo di Stato dal 2018 a oggi.
Da Kuczynski a Castillo, un quinquennio di conflitti
La prima fiammata della crisi ha avuto luogo tra il governo di Pedro Pablo Kuczynski (PPK) e i partiti alleati nella sua coalizione di centro-destra moderato contro il Congresso a maggioranza fujimorista, schierato su posizioni di destra più radicale.
Kuczynski è stato accusato di essere stato corrotto dalla multinazionale brasiliana Odebrecht nel quadro delle conseguenze internazionali dell’inchiesta brasiliana Lava Jato. La grazia concessa a Alberto Fujimori non l’ha protetto da due tentativi di impeachment che l’hanno messo all’angolo di fronte all’opinione pubblica. Kuczynski ha tenuto duro un anno e mezzo e si è poi dovuto dimettere nel marzo 2018 dopo che è emerso uno scandalo di compravendita di voti a favore della sua coalizione.
Il suo successore, Martín Vizcarra, ha concordato con il Congresso guidato dai Fujimoristi una serie di riforme. Nel settembre 2019 in un evento che richiama molto la fase attuale, Vizcarra ha sciolto il Congresso dopo il secondo voto di non fiducia decretato dalla maggioranza nella legislatura contro il governo, una nomina alla Corte Costituzionale contraria ai desiderata del governo di Lima che premeva per l’approvazione rapida di diverse leggi anti-corruzione.
Vizcarra ha decretato elezioni anticipate che si sono svolte nel gennaio 2020, creando però un precedente su ciò che è da intendersi come prerogativa della presidenza. I liberali di Azione Popolare, con 25 seggi su 130, sono stati i più votati alle successive elezioni che hanno presentato un Congresso con ben sette partiti oltre i dieci seggi.
Nel frattempo il Covid-19 entrava in Perù creando disordini notevoli e mietendo decine di migliaia di morti, a Lima e non solo. La crisi ha fatto emergere le problematiche profonde del Paese: la disuguaglianza economica, l’ampia informalità esistente nel mercato del lavoro, la fragilità del sistema sanitario, lo scarso senso di fiducia verso le istituzioni da parte della cittadinanza. Il lockdown preventivo di Vizcarra ha totalmente fallito e l’economia si è contratta del 30% nel 2020, aprendo una nuova fase di crisi.
Dopo un fallito tentativo di impeachment da parte del Congresso avvenuto a settembre, Vizcarra è stato accusato di esser stato coinvolto in un giro di tangenti. Il 9 novembre 2020, un totale di 105 membri del Congresso hanno votato per rimuovere Vizcarra dall’incarico, superando gli 87 voti necessari per ottenere il via libera all’impeachment.
Vizcarra è stato dunque rimosso dal parlamento, il cui presidente Manuel Merino, membro di Azione Popolare, gli è succeduto in assenza di un vicepresidente in quanto terza carica dello Stato. La rimozione è stata accolta da proteste di massa da parte dei sostenitori della coalizione presidenziale. Violenti scontri si scatenarono in tutto il paese. Merino ha usato le forze militari e di polizia per reprimere le proteste facendo leva fin dai primi momenti sulle sue prerogative di capo delle forze armate, mentre Paesi come El Salvador e Venezuela, certamente non allineati a Lima durante l’era Vizcarra, hanno sostenuto i manifestanti ritenendo l’estromissione di Vizcarra una forzatura paragonabile a un golpe.
Mentre città come Lima, Trujillo, Arequipa, Iquitos, Pucalpa, Ica e Tacna si infiammavano, la sera del 14 novembre l’uccisione brutale con diversi colpi alla testa di Brian Pintado e Inti Soleo, due giovani protestanti di soli 22 e 24 anni, ad opera della polizia segnò la precoce fine dell’era Merino, il cui gabinetto il giorno dopo si dimise in massa. Prossimo a subire un impeachment-lampo, Merino gettò la spugna: la sua presidenza era durata solo cinque giorni.
Per 48 ore il Perù fu in un vuoto di potere: caduto Merino, ancora da eleggere il suo successore, destinato a essere automaticamente consacrato Presidente, in lotta tra di loro i partiti, in volo le morti per Covid. Una vera emergenza nazionale a cui il Congresso in seguito rispose scegliendo Francisco Sagasti, un rispettato economista parlamentare del Partito Viola (il cui colore, commistione di rosso e blu, fu scelto proprio per identificare la natura a metà strada tra sinistra e destra della formazione), per guidare un governo di transizione.
La presidenza Sagasti è durata fino al luglio 2021 e alla vittoria di Castillo. L’economista divenuto presidente, classe 1944, forte della sua esperienza di consulente per lo sviluppo economico presso l’International Development Research Centre, la Banca Mondiale, l’UNCSTD e il World Economic Forum si è concentrato sul rispondere alla pandemia con aiuti economici, sull’acquistare 48 milioni di vaccini dalla Cina e dagli Usa e sul gestire gli scioperi agrari che bloccavano il Paese sostenendo l’abrogazione della cosiddetta “legge Chlimper” che promuoveva gli investimenti in agricoltura attraverso magri benefici di lavoro per i campesinos. Base elettorale della Sinistra radicale di Castillo, che sul sostegno delle classi più disagiate del Paese e sui poveri si conquistò la presidenza.
Il braccio di ferro continua
All’indomani delle elezioni generali peruviane del 2021, è emersa una crisi tra i sostenitori di Pedro Castillo e i fujimoristi guidati da Keiko Fujimori, sconfitta alle presidenziali ma di nuovo alla guida del blocco di maggioranza del congresso. Dopo che diversi tentativi di rimuovere Castillo non hanno avuto successo tra settembre 2021 e febbraio 2022, nell’aprile 2022 sono scoppiati disordini di massa.
La destra parlamentare ha cavalcato lo scontento della base di Castillo per il caro-vita e l’inflazione. L’inflazione dei beni di base insieme all’aumento dei prezzi dei fertilizzanti e del carburante a seguito delle sanzioni occidentali contro la Russia ha creato le basi sociali per il malcontento nazionale. Geovani Rafael Diez Villegas, un sindacalista, ha guidato le proteste a cui l’ex insegnante divenuto Presidente ha risposto con una torsione autoritaria e con l’imposizione del coprifuoco.
Da qui è stato un piano inclinato fino allo showdown dei giorni scorsi. In uno stato di tensione permanente, Castillo ha per molti osservatori realizzato un autogol fatale provando a sciogliere il Congresso che voleva disarcionarlo. “Castillo ha deciso di chiudere il Congresso e ha rapidamente ribaltato la situazione contro se stesso”, ha dichiarato Luis Miguel Castilla, economista, ex ministro delle finanze del Perù, ad Americas Quarterly. “Ci aspettavamo un annuncio ufficiale da parte delle Forze Armate – che sarebbe stato l’unico modo in cui Castillo avrebbe potuto farcela – ma erano chiari sul loro sostegno alla costituzione. In effetti, tutte le istituzioni del paese si sono affrettate a denunciare la mossa incostituzionale di Castillo”. Per il politologo di Princeton Will Freeman “l’auto-golpe pasticciato di Castillo dimostra che non importa quanto frustrati possano essere i peruviani con la disfunzione del governo fuori controllo (e sono frustrati), nessuna forza politica è stata in grado di incanalare quel malcontento nel sostegno a un autocrate”. E questo è sicuramente uno dei pochi risvolti positivi per il Paese.
Resta, però, tutto il resto: un Paese che ha un’economia da ricostruire, divisa tra l’estrattivismo minerario alla base del passato sviluppo latinoamericano, un turismo che ha fatto sperare molti peruviani in una diversificazione nel primo quindicennio del secolo e enormi sperequazioni sociali; un Paese ove la politica è fatta di capibanda più che di reali attori istituzionali; uno Stato assediato anche da narcotraffico e rapporti osmotici tra parlamentari di ogni orientamento e criminalità organizzata. Col senno di poi, è quasi miracoloso il fatto che ad oggi la crisi perenne del Paese non sia sfociata in un conflitto civile strisciante.
In ogni caso il campanello d’allarme dell’uso partigiano delle istituzioni resta. Negli ultimi anni, “mentre la disperazione montava tra i peruviani, il nichilismo e l’interesse personale assediavano i legislatori del Perù”, ha fatto notare la politologa di Oxford Cynthia McClintock. “Hanno bloccato gli sforzi anti-corruzione. I problemi di sfiducia, avarizia e ambizione, che hanno a lungo tormentato i partiti politici del Perù e ridotto la capacità dello stato, continuavano. Allo stesso tempo, i limiti all’avanzata del Perù verso l’inclusione socioeconomica erano ancora più evidenti” nonostante gli sforzi non secondari di Vizcarra e Sagasti. Castillo ha incarnato il senso di sfiducia del Paese verso la classe dirigente ma è stato presto capace di superare tutti i concorrenti nell’attivo contributo alla disgregazione della fiducia istituzionale. La Boluarte dovrà provare a ricucire le istituzioni. Compito improbo ma inevitabile, per dare un futuro degno della sua storia all’antica terra degli Inca.