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I Balcani rappresentano una delle regioni di maggiore interesse per Ankara, che sta tentando di estendere la propria influenza non soltanto attraverso investimenti e diplomazia, ma anche per tramite di armi molto potenti quali cultura e religione, due megafoni estremamente utili con i quali diffondere una delle principali visioni del mondo sostenute da Erdogan: il neo-ottomanesimo.

In Bulgaria, dove l’elevata percentuale della comunità turca sul totale della popolazione (circa il 9%) rappresenta un fattore di potenziale rischio, lo scontro è particolarmente acceso e i governi stanno tentando di porre fine all’egemonia culturale esercitata da Ankara sulla folta minoranza islamica e che è stata silenziosamente costruita negli anni.

La guerra sotterranea

La Bulgaria è uno dei ventri molli della penisola balcanica e l’interesse turco nei confronti del paese potrebbe accendere un nuovo fronte di instabilità nella polveriera d’Europa per antonomasia negli anni a venire. Le ragioni sono semplici: il paese ha uno dei tassi di fertilità più bassi del mondo e fra oggi ed il 2100 subirà lo spopolamento più grave e rapido del pianeta, sperimentando al tempo stesso una rivoluzione etnica che porterà rom e turchi a rappresentare la maggioranza della popolazione a detrimento dei bulgari, destinati a diventare minoranza sempre più esigua.

La classe politica bulgara è consapevole che potenze rivali, come la Turchia appunto, potrebbero sfruttare la delicata situazione per trasformare facilmente in una quinta colonna la folta minoranza, che è legata al governo e alla società da trascorsi di assimilazione forzata, espulsioni di massa, e dagli scontri xenofobi degli anni ’90.

Di conseguenza, l’attenzione di Sofia nei confronti dell’islam e della minoranza turca è andata crescendo negli anni recenti, assumendo un carattere sostanzialmente restrittivo e di controllo al cui sviluppo hanno contribuito la retorica irredentista dei politici turchi e i tentativi di ingerenza negli affari religiosi interni del paese. A marzo scorso, ad esempio, un commento di Erdogan sull”appartenenza spirituale” alla Turchia della città di Khardzali aveva scatenato la reazione del ministro degli esteri bulgaro, sottolineante l’immodificabilità dei confini stabiliti dai trattati internazionali.

Come in altri paesi caduti sotto le mire turche, l’agenda neo-ottomana è sostanzialmente affidata al Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet), che in Bulgaria si sta occupando di costruire scuole coraniche, centri culturali, moschee, e di restaurare antichi siti risalenti all’epoca ottomana, religiosi e non religiosi.

I progetti più importanti degli ultimi anni sono stati la restaurazione della moschea di Haskoy, la più antica della penisola, e quella dedicata a Ibrahim Pascìa, ma il governo turco sta pianificando la messa in rinnovo di almeno altri 27 siti e sta dando voce ai turco-bulgari che lamentano il divieto del governo di restaurare anche i minareti.

Il 2016 è l’anno della svolta. Le autorità scoprono una centrale di predicazioni d’odio salafite in una comunità rom del paese, il caso approda in tribunale e termina con delle condanne pesanti, il mondo politico e l’opinione pubblica concordano sulla necessità di reprimere ciò che viene percepita come la diffusione dell’islam radicale nel paese.

Il parlamento approva con tempistiche fulminee la messa al bando nei luoghi pubblici dei veli integrali e avvia una riforma sulle relazioni fra Stato e confessioni che, presto, si svela essere diretta soprattutto alla Turchia, che dagli anni ’90 si occupava del finanziamento delle scuole coraniche e dello stipendiamento degli oltre 600 imam attivi nel paese.

La riforma, entrata in vigore l’anno successivo, estromette Ankara dal ruolo di creditore fino ad allora svolto, giocando un ruolo-chiave nello scoppio di una piccola crisi diplomatica alla vigilia delle parlamentari a Sofia nella quale intervengono i presidenti dei due paesi, lanciandosi reciproche e pesanti invettive. La Turchia viene formalmente accusata di voler influire sulle elezioni bulgare in favore del partito nazionalista turco DOST, un cittadino turco viene espulso e ad altri due viene impedito l’ingresso nel paese.

Il neo-ottomanesimo in breve

Questa scuola di pensiero che ha acquisito una crescente popolarità nel mondo politico a partire dagli anni ’90, soprattutto per merito dell’ex presidente, poi deposto, Necmettin Erbakan, promuove l’idea della rinascita della Turchia in senso imperiale. In questo contesto si inquadrano alcune importanti decisioni di Erdogan degli ultimi anni, come lo scontro frontale con l’Unione Europea, il supporto al nazionalismo islamico e alla questione palestinese, l’interesse per lo Xinjanglo svelamento di ambizioni nucleari e le sfide lanciate agli Stati Uniti, come mostrato dal caso Andrew Brunson.

Tutto ciò è avvenuto sullo sfondo di un matrimonio di convenienza con Mosca, forgiato nel post-golpe, ma che è anch’esso ricco di contraddizioni e secondi fini di prevaricazione, alla luce dell’agenda antirussa perseguita in Moldavia, Ucraina e all’interno della stessa Russia, nelle regioni a maggioranza islamica e turcofona.

Questo è legato al fatto che nel neo-ottomanesimo non c’è spazio per alleanze e partenariati strategici di lungo termine, ma soltanto per amicizie di comodo funzionali al raggiungimento di scopi precisi e alla difesa di interessi contingenti. L’obiettivo ultimo, infatti, resta la ricostruzione di una sfera d’influenza su tutti quei territori che furono di proprietà o sotto influenza della Sublime Porta durante l’era ottomana: da Sarajevo a Tashkent, passando per Sofia.

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