L’esecutivo conservatore guidato da Boris Johnson prosegue in un pericoloso percorso di lento e progressivo disfacimento.
Il ministro del Lavoro Amber Rudd, che si era schierata per il Remain nel contestato referendum del 2016, ha deciso di lasciare la compagine governativa. Le ragioni di questa scelta, secondo la stessa Rudd, sono da ricercarsi nel trattamento riservato ai 21 deputati Tory ribelli, che avevano appoggiato la mozione delle opposizioni per vincolare il governo a chiedere un rinvio di tre mesi della Brexit e nella scarsa volontà del premier di giungere ad un accordo con Bruxelles. L’ex ministro sostiene, infatti, che la reale intenzione di Johnson sia quella di arrivare ad un “no deal e quindi di tagliare i ponti in maniera radicale con l’Unione Europea. Non è stata inoltre digerita la cacciata dei 21 deputati europeisti, tra i quali si contano molti importanti esponenti del partito, come Philip Hammond e Dominic Grieve. La Rudd verrà sostituita da Therese Coffey, ex ministro dell’Ambiente nell’esecutivo di Theresa May e anch’essa una sostenitrice del Remain.
Dopo la perdita della maggioranza parlamentare, avvenuta con il passaggio del deputato Phillip Lee ai liberal democratici, il governo Tory subisce un ulteriore e pesante colpo destinato ad indebolirlo. Senza dimenticare la legge vincolante, votata tanto dalla Camera dei Comuni quanto dalla House of Lords, che obbligherà il premier a chiedere un rinvio dell’uscita dall’Unione europea di tre mesi (per il momento è prevista al 31 ottobre) qualora non si sia raggiunta un’intesa con Bruxelles per una Brexit ordinata.
Il premier all’angolo?
Johnson continua però ad ostentare sicurezza e ha affermato, provocatoriamente, che preferirebbe essere morto in un fosso piuttosto che chiedere ulteriori e costosi rinvii della Brexit. La battaglia dell’esecutivo, vista l’impossibilità di interrompere l’approvazione della legge anti No Deal, si è ormai spostata sulla richiesta di procedere ad elezioni anticipate, in modo che sia il popolo inglese, che già si era espresso per l’uscita dall’Unione europea, ad avere l’ultima parola sulla vicenda. Secondo il Fixed Term Parliamentart Act, approvato nel 2011, le consultazioni anticipate possono aver luogo solamente in caso di voto in favore dei due terzi dei membri della Camera dei Comuni oppure qualora sia approvata una mozione di sfiducia nei confronti del governo in carica e nessuna nuova amministrazione riesca a formarsi nei quattordici giorni successivi.
In parole povere Johnson ha bisogno del supporto delle opposizioni, dai Laburisti ai Liberal democratici, ai Verdi e ai nazionalisti, per tornare alle urne, come annunciato, il 15 ottobre. Paradossalmente questi partiti non sembrano però intenzionati a dar luce verde alle richieste di Downing Street. I sondaggi elettorali indicano, chiaramente, come il Partito Conservatore continui a riscuotere il gradimento più alto all’interno del Paese e come dovrebbe quindi imporsi in caso di voto anticipato. Non è dunque interesse delle opposizioni rinforzare, con un nuovo mandato di cinque anni, un esecutivo che al momento gode di una stabilità assai precaria. Jeremy Corbyn, il leader dei Laburisti, ha inoltre chiarito come la legge anti No Deal debba essere effettivamente entrata in vigore prima che nuove consultazioni possano aver luogo, per evitare il rischio di un’uscita disordinata dall’Unione Europea.
Le prospettive
Il Regno Unito continua ad essere attraversato da una profonda e lacerante divisione sul tema della Brexit. Non sembrano possibili accordi o compromessi tra i Leavers ed i Remainers, le cui posizioni si stanno estremizzando sempre di più. La chiara volontà popolare emersa dal referendum del 2016 si scontra, per i contrari ad un no deal, con la necessità di preservare le future relazioni con Bruxelles e di evitare un possibile shock economico per il Paese. I sostenitori di un’uscita del Regno Unito a tutti i costi, invece, sono pronti al rischio di un grande salto nel buio pur di rispettare l’esito del voto sulla Brexit.
Sullo sfondo persiste il rischio di una vera e propria disintegrazione del Regno Unito. In caso di uscita disordinata da parte di Londra, infatti, c’è da aspettarsi che, nel breve o medio termine, la Scozia indica un secondo referendum sull’indipendenza. La regione, fortemente schierata per il Remain nel 2016, potrebbe secedere da Londra e tornare tra le braccia di Bruxelles. L’esplosiva questione del confine dell’Irlanda del Nord, inoltre, potrebbe riaccendere un conflitto locale pronto a riesplodere con esiti imprevedibili. Boris Johnson si trova in una posizione molto difficile: deve sottrarre consensi al Brexit Party di Nigel Farage, che lo pungola da destra ed invoca un’uscita immediata e senza accordi ma al tempo stesso, per farlo, rischia di provocare una vera e propria crisi politica senza ritorno. Le opposizioni, invece, che uscirebbero probabilmente sconfitte dalle consultazioni anticipate, a meno che non formino un’alleanza elettorale, devono lottare contro il tempo per disinnescare la possibilità di un No Deal. Il vero rischio è che la questione della Brexit possa causare, per la polarizzazione politica e l’assenza di decisioni definitive sul tema, gravi danni all’economia del Paese e una possibile frammentazione, nel medio o lungo termine, dello stesso Regno Unito.