Il nascere delle ambizioni globali della Cina, necessariamente supportate dallo sviluppo di un complesso militare moderno, diffuso in tutti i domini e caratterizzato da un crescente numero di mezzi, ha spinto gli Stati Uniti a impegnarsi decisamente nello spostamento del loro baricentro politico/militare verso l’Asia (politica nota come pivot to Asia) e in particolare verso il Pacifico Occidentale e l’Oceano Indiano.
Il nodo della proiezione cinese
L’assertività del Dragone, che sta trasformandosi, almeno diplomaticamente, anche in aggressività, è connaturata all’allungamento del suo braccio militare limitatamente, per il momento, ai suoi mari contigui: negli ultimi anni stiamo assistendo a una rinnovata politica aggressiva verso Taiwan, che ha avuto un parossismo ad agosto 2022 in concomitanza con la visita “a sorpresa” della presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti Nancy Pelosi – ma Pechino sta mettendo in atto una serie di provocazioni verso l’isola con voli di velivoli militari che penetrano nella sua Adiz (Air Defense Identification Zone) da tempo e in modo progressivo – e soprattutto nel Mar Cinese Meridionale, specchio d’acqua al centro di rivendicazioni territoriali che interessano i Paesi che vi si affacciano, ha cominciato a stabilire una presenza permanente di assetti militari in alcuni isolotti degli arcipelaghi che lo costellano, con, in parallelo, affermazioni unilaterali in ambito giuridico che sono a tutti gli effetti il preludio alla nazionalizzazione di quel mare (che porteranno con ogni probabilità anche alla nascita di una Adiz cinese come avvenuto per il Mar Cinese Orientale).
Pechino lavora su un doppio binario: militare e diplomatico/commerciale sfruttando la Bri (Belt and Road Initative) per guardare più lontano, ma nel Pacifico Occidentale non ha molti sbocchi, se escludiamo quanto visto con Kiribati e le Isole Salomone.
Come noto, la politica cinese intende affermarsi globalmente e per farlo deve assicurarsi una serie di “cinture di difesa” per la propria proiezione di forza: Taiwan e le isole del Mar Cinese Meridionale fanno parte della Prima Catena di Isole, ma ne esiste una seconda, che passa dalle Marianne e dalla Nuova Guinea e anche una terza, che tocca le Hawaii. Lo scopo, è bene sottolinearlo, non è puramente difensivo – fatto salvo, forse, per la Prima Catena di Isole – ma proattivo/offensivo in funzione del contrasto alla potenza navale degli Stati Uniti.

Washington, dopo qualche lustro di sonnolenza sotto l’amministrazione Obama, ha riaperto con vigore il dossier Indo-Pacifico dapprima rimodulando le proprie forze armate, e in particolare la U.S. Navy e i Marines (tornati a essere una forza puramente anfibia), poi stringendo ulteriormente i legami che ha coi suoi alleati e partner nell’area (Giappone, India, Corea del Sud, Filippine, Taiwan, Vietnam), infine investendo nel miglioramento delle sue basi oltremare e nella costruzione di nuove. Il principio alla base di questa politica è determinato dallo stesso concetto di sicurezza che hanno gli Stati Uniti: controllare e difendere i due Oceani che bagnano la nazione per allontanare qualsiasi tipo di minaccia dal territorio statunitense.
La presenza Usa nel Pacifico
Tralasciando l’Atlantico, dove gli Usa possono contare sull’Europa – e soprattutto sul fedele scudiero Regno Unito – ma dove, in un prossimo futuro, saranno chiamati all’azione vista l’intenzione cinese di avere basi navali in Africa, nel Pacifico Washington può contare su diverse “barriere” rappresentate dalle installazioni aeronavali e dai Paesi alleati.
Partendo dalla costa occidentale statunitense, escludendo l’Alaska e le Aleutine, il Pentagono ha il fulcro del suo potere militare nel Pacifico alle Hawaii, dove è situato il comando dell’Indo-Pacifico. Spostandoci più a ovest, si incontrano le isole Marianne, dove è presente un’importante installazione militare rappresentata da Guam (e dalla sua base aerea Andersen), da cui portaerei e bombardieri statunitensi possono agevolmente raggiungere il continente asiatico. Recentemente gli Usa hanno reso noto di voler ristrutturare il vecchio aeroporto militare sull’isola di Tinian (stabilito durante la Seconda Guerra Mondiale) in quanto i recenti sviluppi nel settore missilistico e anche in quelli aeronautico e navale della Cina ha richiesto una certa capacità di “ridondanza” per poter cercare una qualche forma di decentramento in caso di attacco.
Procedendo verso il continente incontriamo il Giappone, dove gli Stati Uniti hanno un’importante presenza militare in quanto potenza uscita vincitrice dalla Guerra nel Pacifico: il comando della Settima Flotta Usa è a Yokosuka, importante scalo navale in grado di offrire anche il fondamentale supporto cantieristico, mentre l’U.S. Air Force può contare sullo scalo di Kadena (nell’isola di Okinawa), sulla base aerea di Misawa e su quella di Yokota. Anche i Marines hanno le proprie installazioni aeroportuali: Futenma, sempre a Okinawa, e Iwakuni. In Giappone esistono altre 17 installazioni militari statunitensi appartenenti all’esercito, alla marina e ai Marines, ma il centro nevralgico della presenza statunitense nel Paese del Sol Levante è sicuramente l’isola di Okinawa proprio per la sua posizione geografica a metà strada tra l’arcipelago nipponico e Taiwan: da lì si controlla l’accesso al mare aperto del naviglio proveniente dalla Cina e passante per il Mar Cinese Orientale.
Abbiamo già avuto modo di analizzare in dettaglio la presenza statunitense in Corea del Sud, determinatasi dall’esito del conflitto che ha insanguinato la Penisola tra il 1950 e il 1953, che è funzionale non solo alla deterrenza nei confronti di Pyongyang, ma anche al controllo dell’attività cinese nell’area, recentemente andata crescendo anche in modo congiunto con la Russia. Washington, attualmente, può disporre di circa 23mila militari suddivisi in 13 installazioni militari in Corea del Sud.

Scendendo lungo quella che è la Prima Catena di Isole incontriamo le Filippine. Qui gli Stati Uniti hanno avuto un importante presidio aeronavale, rappresentato dalla base di Subic Bay, che è stata lasciata nel 1992 per questioni legate al non raggiungimento di un accordo sui costi di affitto, ma soprattutto in quanto il termine della Guerra Fredda e il normalizzarsi dei rapporti col Vietnam ne hanno reso inutile la presenza. Oltre a questa il Pentagono poteva contare anche sulla base aerea Clark, anch’essa abbandonata nei primi anni ’90, ma nel 2016, e proprio a causa dell’attività militare cinese nel Mar Cinese Meridionale, un contingente di velivoli dell’U.S. Air Force è ritornato sullo scalo aereo. Da qui, oggi, partono i velivoli da pattugliamento marittimo e Antisom P-8 Poseidon dell’U.S. Navy. Recentemente è emersa la notizia riguardante il possibile ritorno degli Usa a Subic Bay, proprio a causa delle preoccupazioni filippine riguardo l’assertività cinese, e risulta anche che siano stati avviati contatti tra Manila e Washington per stabilire altri cinque presidi militari nell’arcipelago.
Restando nei Paesi che si affacciano su quello specchio d’acqua conteso, la U.S. Navy può contare su almeno due porti di appoggio per la propria attività: il primo è quello di Singapore, il secondo è quello di Da Nang, dove le recenti storiche visite di una portaerei statunitense hanno certificato il legame di amicizia che oggi intercorre tra Vietnam e Stati Uniti.
Guardando oltre, anche se geograficamente più lontano dall’area più calda della regione, Washington ha la possibilità di appoggiarsi all’Australia e al suo vastissimo territorio che si affaccia sull’Oceano Pacifico e sull’Indiano: la firma del trattato Aukus è servita proprio a rafforzare la cooperazione tra i tre Paesi anglofoni più attivi nella politica dell’Indo-Pacifico in funzione anticinese.