La petroliera iraniana Adrian Darya 1, che la scorsa estate è stata al centro di una contesa internazionale a seguito del suo abbordaggio e sequestro a Gibilterra, ha scaricato il suo carico di 2,1 milioni di barili di petrolio greggio in Siria. A riferirlo è stato lo stesso Segretario di Stato americano Mike Pompeo in un tweet che mostra una ripresa satellitare della petroliera alla fonda non lontano dalla raffineria siriana di Baniyas, affiancata da un piccola nave cisterna, la Jasmine, sempre battente bandiera di Teheran.

“Nonostante la promessa del ministro degli Esteri iraniano (Mohammed n.d.r.) Zarif alla Gran Bretagna che l’Adrian Darya 1 non avrebbe consegnato petrolio alla Siria, ora sta trasferendo greggio al largo della costa siriana. Il mondo riconoscerà la responsabilità dell’Iran nella consegna di questo petrolio alla Siria?” sono state le parole di Pompeo, riferendosi alla violazione delle sanzioni imposte alla Siria dal Dipartimento del Tesoro americano e dall’Unione Europea che prevedono l’embargo sugli idrocarburi.

La vicenda dell’Adrian Darya sembra quindi essere giunta a conclusione, con la conferma di quelli che erano i sospetti iniziali sulla destinazione finale del carico di greggio. Le dichiarazioni di Pompeo vanno però inquadrate in una visione più ampia dei rapporti tra Stati Uniti e Iran, caratterizzati, negli ultimi mesi, da un’andamento che oscilla tra l’apertura al dialogo e l’inasprimento dei toni diplomatici, che rientrano perfettamente nella strategia della Casa Bianca per cercare di (ri)portare gli Ayatollah al tavolo delle trattative e strappare un accordo sulla denuclearizzazione con lo stesso modus operandi tenuto con la Corea del Nord.

Salta l’incontro Trump Rouhani

Donald Trump ed Hassan Rouhani avevano trovato un’intesa su un documento di quattro punti mediato da Emmanuel Macron la scorsa settimana a New York, come base per un incontro ed un rilancio dei negoziati. La notizia è stata riportata da Politico che riferisce come alla fine l’incontro sia saltato perché il presidente iraniano voleva che Trump prima dichiarasse l’intenzione di revocare le sanzioni.

L’accordo era il risultato di una “politica navetta” di Macron tra Trump e Rouhani e prevedeva che l’Iran non acquisisse nessun tipo di armamento atomico e che aderisse completamente ai suoi obblighi sul nucleare accettando nel contempo una negoziazione a lungo termine sulla propria capacità nel campo dell’energia atomica. L’Iran avrebbe anche garantito di astenersi da ogni aggressione e si sarebbe accordato per imboccare la strada per una “genuina politica di pace e rispetto nella regione attraverso negoziazioni”.

Da parte americana ci sarebbe stato l’impegno di “revocare tutte le sanzioni imposte nuovamente dal 2017” e si sarebbe riconosciuta all’Iran “piena capacità di esportare il suo petrolio e utilizzare liberamente le sue entrate”.

L’incontro poi non è avvenuto in quanto le autorità iraniane hanno insistito sul fatto che Trump prima avrebbe dovuto dichiarare che si sarebbe impegnato a togliere le sanzioni che stanno strangolando l’economia iraniana. A nulla è valso anche il successivo tentativo di Macron di organizzare una telefonata tra Trump e Rouhani per cercare di salvare l’accordo, in quanto il presidente iraniano avrebbe rifiutato questa alternativa, come riportano fonti francesi.

Una strada difficile ma non impossibile

Il messaggio di Pompeo che, in un certo senso, mette con le spalle al muro l’Iran dimostrando la violazione dell’embargo alla Siria, è quindi stato generato da una serie di eventi avvenuti repentinamente nei giorni scorsi che delineano la difficoltà delle diplomazie Usa e iraniane di trovare un accordo sul delicato tema del nucleare.

Non sappiamo quando la ripresa satellitare sia stata effettuata con esattezza, sappiamo solo che è stata resa nota il 2 ottobre, e quindi non possiamo dire se la decisione si scaricare il petrolio sia successiva o precedente al fallimento dell’accordo tra Trump e Rouhani. Se fosse successiva darebbe una spiegazione alla decisione iraniana di non accettare nemmeno una conversazione telefonica, se fosse precedente spiegherebbe perché gli Stati Uniti non abbiano voluto cedere sulla questione delle sanzioni e dell’embargo.

La via per il raggiungimento di un accordo tra le parti che porti alla riedizione di un trattato sul nucleare iraniano, dopo la fine del Jcpoa, è costellata di difficoltà che però non ci sembrano insormontabili: risulta evidente come le diplomazie di Stati Uniti e Iran intendano proseguire nella volontà di confrontarsi, di colloquiare, pur mantenendo – a grandi linee – le proprie posizioni.

Washington, infatti, ha ribadito a Teheran la propria volontà di non voler sovvertire il regime degli Ayatollah, così come ha fatto con Pyongyang per lo stesso tema (la denuclearizzazione), ma l’Iran in questo momento ha bisogno di dimostrare di poter negoziare “alla pari” con la superpotenza americana: sul piatto non c’è solo l’embargo e la vendita dei propri idrocarburi, ma anche uno scacchiere geopolitico mediorientale molto delicato, dove esistono potenze regionali – Israele e Arabia Saudita – che combattono il tentativo iraniano di allargare la propria influenza nell’area (la famosa “Mezzaluna Sciita”) e che vengono percepite dagli Ayatollah come una minaccia esistenziale. Una questione, quindi, anche di credibilità.

In questa partita a scacchi tra Iran e Stati Uniti il rischio è proprio quello che altri giocatori (Tel Aviv e Riad), scompiglino la scacchiera che faticosamente si sta componendo, e potenzialmente distruggano il tentativo di entrambe le parti di trovare un accordo che sia vantaggioso.

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