Aukus è il nome e 15.9.21 è la data. Aukus è il nome di un patto per l’Indo-Pacifico tra Australia (A), Regno Unito (UK) e Stati Uniti (US), e il 15 settembre è il giorno in cui il mondo è venuto a conoscenza della sua esistenza. Esistenza che ha contentato alcuni, come Taiwan e India, e che ha sbalordito altri, come la Repubblica Popolare Cinese – il bersaglio dell’Aukus – e la Francia – vittima collaterale dell’iniziativa, e che condurrà la competizione tra grandi potenze ad un livello ulteriore di escalazione.

L’Aukus, come era prevedibile, ha suscitato trasecolamento all’interno dell’Unione Europea, che dall’America si percepisce trascurata, finanche tradita, e che, ciononostante, continua a non possedere né la forza né la volizione di trasporre in realtà quei sogni di autonomia strategica che tanto addolciscono i sonni e animano i sogni dell’asse franco-tedesco. Una condizione altalenante tra inerzia e ignavia, quella europea, che ha obbligato gli Stati Uniti ad operare un ritorno alle origini, o meglio all’anglosfera.

In questo contesto di Indo-Pacifico in sommovimento, e di Europa declassata da alleato imprescindibile a collaboratore dispensabile, osservatori e partecipanti dell’Italia e del nostro continente sono chiamati a prendere atto della realtà: la storia è tornata, ed è qui per restare.

Lo sbigottimento non servirà a nulla

La Francia, in una prima storica assoluta – che non ha precedenti –, ha reagito allo svelamento dell’Aukus richiamando i propri ambasciatori negli Stati Uniti e in Australia per consultazioni. Una mossa simbolica, che difficilmente avrà ripercussioni serie sulle relazioni tra Parigi e l’anglosfera, ma che (ci) dice molto sulla condizione di poststoricità e sul sonnambulismo che caratterizzano le potenze dell’Europa, anche quelle più assertive e presenti nell’ecumene.

La rabbia dell’Eliseo è comprensibile – l’atto fondativo dell’Aukus prevede che Canberra acquisti una flotta di sottomarini nucleari da Washington, stracciando de facto un accordo già in essere con Parigi del valore di 65 miliardi di dollari –, per certi versi ricorda le schermaglie di facciata dell’epoca della coalizione dei volenterosi – poi sostituite dall’entusiastica partecipazione francese alla Guerra al Terrore –, ma il contesto dal quale è scaturita quest’alleanza per l’Indo-Pacifico da ridondantemente ragione alle ragioni dell’anglosfera. Perché se le potenze del luogo volessero del supporto concreto in caso di guerra calda con la Cina, l’Europa non potrebbe dar loro nulla; gli Stati Uniti, invece, sì.

Quel concreto, che prenderà forma definitiva soltanto nei mesi a venire, dovrebbe prevedere una maggiore collaborazione nell’intelligence e nella sorveglianza – non si dimentichi che Canberra, Londra e Washington sono già unite nel sistema dei Cinque Occhi –, lo scambio di armamenti avanguardistici ed una maggiore cooperazione nella sfera della sicurezza cibernetica.

Restano fuori dall’Aukus, per ora, Canada e Nuova Zelanda, ma la loro presenza non è necessaria né richiesta al momento – quella canadese potrebbe divenirlo nel caso di un allargamento del conflitto all’Artico, mentre quella neozelandese offrirebbe un trascurabile compattamento del fronte pacifico. E sembra, anzi è altamente probabile, che vi parteciperanno India e Giappone in qualità di collaboratori esterni, poiché legati all’anglosfera dalla storia, dall’antichissima rivalità con l’Impero celeste e dal Dialogo di Sicurezza Quadrilaterale, altresì noto come Quad.

L’Europa e l’Aukus

L’Aukus potrebbe essere descritto e qualificato per mezzo di vari aggettivi – tra i quali attuale, naturale e predicibile –, ma quello che gli si addice meno è fedifrago. Perché l’Aukus è tutto meno che un tradimento dell’America all’Europa: è un ritorno alle origini accompagnato da una certa dose di consapevolezza storica. E l’Europa, in questo momento, non possedendo né una percezione del proprio io né un senso dell’attualità, non può rivestire alcuna primarietà per gli strateghi della febbricitante anglosfera.

L’Eliseo ha accusato la Casa Bianca di proseguire sulla scia del trumpismo, preferendo l’unilateralismo, la diplomazia segreta e le alleanze alternative al partenariato privilegiato con l’Europa, ma la verità è che Joe Biden non è mai stato un anti-Trump – gli è antitetico soltanto per quanto concerne il sistema valoriale promosso in patria e nel mondo – e che sono sempre stati in errore coloro che ne hanno atteso messianicamente l’insediamento nella speranza-aspettativa che rimarginasse la frattura tra le due sponde dell’Atlantico.

Come avevamo scritto lo scorso gennaio, nei giorni precedenti all’inaugurazione della nuova amministrazione, il ritorno dei Dem alla Casa Bianca non avrebbe avuto ricadute particolarmente benefiche per l’Ue, colpendo in particolare le ambizioni di autonomia strategica di Emmanuel Macron, insidiando le agende conservatrici dell’alleanza Visegrad e comportando un ritorno al multilateralismo strumentale di bushiana memoria. Quest’ultimo era stato da noi definito “un richiamo all’unità, in realtà una coesione coercitiva, per prevenire, rallentare e ritardare la formazione della cosiddetta autonomia strategica europea”.

Gli eventi successivi, che hanno avuto luogo da gennaio a questa parte, hanno dato ragione alla nostra previsione: ai membri dell’Ue sono state richieste delle prove di lealtà, come il caso Biot in Italia e le guerre diplomatiche nell’Est Europa, ed è stato simultaneamente imposto loro un multilateralismo di facciata che ne inibisce l’autonomia a livello internazionale, specie nella sinosfera. A pagare il prezzo più alto, oggi, è la Francia – una punizione per quel lobbismo a favore di un’Europa come polo a se stante? –, ma domani potrebbero essere l’Italia, la Germania e l’Ue nel suo insieme.

Biden vuole un’Europa attiva

L’Europa ha soltanto un modo per evitare di essere colta nuovamente alla sprovvista e di subire i danni della coesione coercitiva: tornare alla storia. Perché l’Aukus, di nuovo, altro non è che una manifestazione dei tempi attuali – tempi di alleanze nel nome dell’identità e di rivalità date dalla storia –, e se l’Europa vuole realmente prendere parte alla scrittura del futuro del mondo, allora, abbisogna di uscire da quel sonno poststorico in cui versa beatamente dal secondo dopoguerra.

Uscire dal sonno poststorico, in termini pratici, potrebbe significare una varietà di cose: dal contributo effettivo al bilancio dell’Alleanza Atlantica alla messa in sicurezza del Mediterraneo dalle interferenze sino-russe, passando per la tutela dei Balcani e dei mari caldi come il Nero e il Rosso e per la partecipazione tangibile alla partita dell’Indo-Pacifico. Cose che gli Stati Uniti chiedono da anni agli alleati europei, i quali, agendo controstomaco o non agendo proprio, hanno fatto sì che dall’altro lato dell’Atlantico si preferissero altri faccendieri, come l’ambigua ma imperiosa Turchia, e si adottasse una linea più dura nei confronti del guazzabuglio europeo, coartato a delle scelte di campo nonostante la nolenza.

Questo è il momento dell’azione, in sintesi, il momento per le potenze europee di dimostrare che possono essere i faccendieri dell’America in teatri come il Mediterraneo allargato, la regione MENA, i Balcani e l’Asia centrale, e che possono e vogliono agire fattivamente nell’Indo-Pacifico. La Francia sembra aver recepito il messaggio contenuto nell’Aukus, come dimostrano le proposte di cooperazione avanzata presentate a Corea del Sud e India.

Anche l’Italia dovrebbe comprendere che l’alternativa all’azione, che produrrebbe benefici tanto all’America quanto a noi in quanto avvezzi all’equilibrismo tattico –, sarebbe e sarà un crescendo di appaltamenti dei fascicoli che contano ad attori extra-europei, o meglio ad attori che abbiano ancora il senso della storia. La Francia è stata colpita, sebbene stia già cercando di riprendersi, e l’Italia e tutti gli altri sono avvisati: l’America chiede allineamento ed azione, pena punizioni ed esclusione.