Nel bene e nel male, il mondo conosce Netanyahu. É il premier israeliano più longevo, è stato in carica una prima volta dal 1996 al 1999 e poi dal 2009 fino al giugno 2021. Le diplomazie internazionali, in poche parole, sanno con chi hanno a che fare. La stessa cosa però non si può dire per quelli che dovrebbero essere i futuri alleati di Netanyahu. Quei partiti della destra religiosa cioè in grado di registrare un importante incremento dei voti e che ora, con le loro posizioni ritenute in molti casi estreme, potrebbero influenzare l’operato del futuro governo israeliano.
Per questo da molte cancellerie internazionali sono arrivate reazioni prudenti alla vittoria di “Bibi”. La parola d’ordine sembra essere una: aspettare. Attendere quali saranno le prime mosse della nuova era di Netanyahu, prima di prendere posizione.
Occhi puntati su Itamar Ben Gvir
A conteggio ultimato il Likud di Netanyahu è il primo partito, grazie ai suoi 31 seggi. Yesh Atid, del premier uscente Yair Lapid, è secondo con 24 seggi. Ad assicurare a Netanyahu la possibilità di formare il nuovo esecutivo sono i 15 seggi di Sionismo Religioso, gli 11 di Shas e i 7 di Giudaismo Unito nella Torah. Complessivamente, la nuova compagine di maggioranza dovrebbe poter contare su 64 parlamentari su 120. Un margine importante, specie considerando il frazionamento del panorama politico dello Stato ebraico.
Shas e Giudaismo Unito nella Torah sono due formazioni votate soprattutto dagli ebrei ultraortodossi. Entrambe siedono da parecchio tempo con i rispettivi rappresentanti all’interno del parlamento e hanno fatto parte di quasi tutte le maggioranze di governo degli ultimi 30 anni. Il loro ingresso nell’esecutivo guidato dal Likud quindi non desterebbe particolari attenzioni. Gli occhi della comunità internazionale invece sono puntati tutti su Itamar Ben Gvir. É a lui che si guarda, con non poco sospetto, per capire il comportamento e il posizionamento di Netanyahu.
Ben Gvir è a capo del partito Jewish Power, confluito nella lista di Sionismo Religioso. Un partito quest’ultimo noto per le sue posizioni radicali e che ha ottenuto martedì un risultato record. Sia i leader di Sionismo Religioso che Ben Gvir non hanno mai fatto parte di un governo. Anzi, non è un mistero il fatto che molti deputati del Likud hanno spesso evitato di incontrare in parlamento membri dei due partiti in questione. A pesare sulla loro reputazione le affermazioni giudicate razziste contro la popolazione israeliana di origine araba. Ben Gvir inoltre da giovane ha militato nel Kach, movimento chiuso nel 1994 per posizioni ritenute estremamente dure contro i palestinesi e per ripetute azioni di violenza.
La prudenza degli Stati Uniti
Da Washington non sono arrivate le classiche “congratulazioni” al vincitore. Commentando l’esito del voto davanti ai giornalisti, il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Ned Price, ha sottolineato l’importanza di continuare a lavorare sulla base di valori comuni. “La relazione tra Stati Uniti e Israele si è sempre basata su interessi condivisi – ha dichiarato – ma soprattutto sui valori che abbiamo in comune: speriamo quindi che il nuovo governo continuerà a promuovere i valori di una società aperta e democratica, includendo anche la tolleranza e il rispetto delle minoranze”. A ben vedere, la dichiarazione sembra voler lanciare più un auspicio che un augurio di buon lavoro. Come se a Washington ad oggi non si venga dato per scontato il rispetto di determinati principi da parte del futuro governo Netanyahu.
Prudenza è arrivata anche dalla Casa Bianca. Il portavoce Karine Jean-Pierre ha sì parlato di un governo Usa “che non vede l’ora di lavorare con il nuovo esecutivo israeliano” ma, al tempo stesso, ha rimarcato come ogni giudizio al momento appaia prematuro. “É troppo presto – si legge nelle dichiarazioni del portavoce – sapere quale sarà l’esatta composizione della futura maggioranza”.
Se a livello ufficiale si parla di prudenza, nei meandri della diplomazia Usa invece sono trapelate indiscrezioni di vera e propria ostilità. Al sito Axios, come sottolineato da AgenziaNova, due funzionari hanno rivelato che la Casa Bianca potrebbe decidere di non lavorare con Ben Gvir qualora quest’ultimo dovesse entrare nella squadra di governo. Un vero e proprio boicottaggio di un membro dell’esecutivo dello Stato ebraico con pochi precedenti e in grado ovviamente di far deteriorare i rapporti tra i due Paesi.
Le reazioni in medio oriente
Alla vigilia del voto si è parlato della possibilità di un nuovo raffreddamento dei rapporti tra Israele e alcuni Stati vicini in caso di avanzata dei partiti religiosi. L’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese, tramite il premier Mohammad Shtayyeh ha parlato di “estremismo dilagante” e di Israele non affidabile per raggiungere la pace. Prudenza è stata espressa dalla Turchia, uno dei Paesi a maggioranza musulmana con cui lo Stato ebraico ha rapporti diplomatici. “Qualunque sia il risultato elettorale – ha dichiarato Erdogan in una recente intervista – vogliamo mantenere le relazioni con Israele, sulla base del rispetto reciproco e degli interessi comuni”. Ma anche negli ambienti diplomatici di Ankara è emerso non poco scetticismo per il possibile arrivo al governo dei movimenti religiosi più estremisti.
Emirati Arabi Uniti e Bahrein, i due Paesi del Golfo che hanno normalizzato i propri rapporti con Israele tramite gli accordi di Abramo, non hanno espresso posizioni ufficiali ma fonti governative locali già nei giorni scorsi hanno parlato dell’importanza di evitare derive estremiste. Il mondo quindi guarda con attenzione a quello che accadrà nei prossimi giorni e a come sarà composta la squadra di Benjamin Netanyahu.