La Turchia degli anni Venti del Duemila è una grande potenza in ascesa, i cui tentacoli si stendono dal Messico alle Filippine e le cui aspirazioni egemoniche non possono essere ignorate né a ponente né a levante. Perché la Turchia della contemporaneità è tornata a reclamare il proprio posto nel mondo, che è quello di Sublime Porta tra Europa e Asia, e ha mostrato e dimostrato in più occasioni di essere pronta a difendere la propria visione con gli artigli, dalla Libia al Nagorno Karabakh, passando per Mediterraneo e Siria.
Forte della copertura garantita dall’ombrello protettivo degli Stati Uniti, nonché del possesso di un esercito parallelo, efficiente, numeroso ed in salute, composto da militari privati (Sadat), islamisti (la galassia della Fratellanza Musulmana), jihadisti e soldati del panturchismo, la Turchia ha potuto espandersi tra Africa, Balcani, Medio Oriente e Asia centrale in funzione di contenimento e contrasto della Russia. Guadagnando posizioni nello spazio ex ottomano a detrimento di Mosca, Ankara ha ottenuto credito agli occhi di Washington, costantemente alla ricerca di faccendieri affidabili ai quali delegare il controllo di porzioni del mondo, e negli anni recenti ha cominciato a pungere il fianco occidentale di Pechino, lo Xinjiang, disseppellendo un antico legame con il popolo uiguro.
Fatti ed eventi suggeriscono, anzi provano, che la Turchia, o meglio il mondo turcico (türk dünyası), quella costellazione civilizzazionale estesa dall’Europa (Cipro, Gagauzia, Crimea, Bulgaria) alle profondità della Russia (dal Volga alla Jacuzia), sarà un importante banco di prova per le aspirazioni egemoniche sull’Eurasia di Russia e Cina.
Il supporto economico di Pechino ad Ankara
Agli occhi della Cina la Turchia rappresenta una cerniera tra Oriente e Occidente. Lo è, ovviamente, da un punto di vista geografico, vista l’ubicazione della Repubblica turca, ma anche – e soprattutto – da quello geopolitico. Basta tornare all’estate del 2019 per capire gli interessi reciproci insiti nelle relazioni sino-turche. A giugno di quell’anno, ha rivelato Bloomberg, la Banca Centrale Cinese trasferì ad Ankara fondi per un valore di 1 miliardo di dollari, rinsaldando così il rapporto tra la lira turca e lo yuan cinese. Se il Dragone non avesse effettuato questa specie di bailout per scongiurare il default della Turchia, Recep Tayyp Erdogan non avrebbe avuto la forza neppure di muovere un soldato verso la Siria.
Erdogan convinse inoltre il presidente Xi Jinping a sborsare altri 3.6 miliardi di dollari da investire in vari progetti infrastrutturali. La Cina non si è certo fatta sfuggire un’occasione del genere. Pechino ha accettato di gettare un importante salvagente al governo turco per due motivazioni principali. Intanto mettere radici in Turchia mediante un’azione economica che avrebbe consentito ai cinesi di potenziare la Belt and Road Initiative in loco; dopo di che, foraggiando le ambizioni di Erdogan, il Dragone sarebbe stato in grado di vanificare le interferenze economiche americane ai danni dell’economia turca.
BRI e Mediterraneo
In tempi più recenti l’asse tra i due Paesi è stato rinsaldato da un nuovo obiettivo comune: essere protagonisti, per ragioni differenti, nel Mar Mediterraneo. A Taranto, ad esempio, l’azienda turca Yilport Holding, attiva nella logistica, funge da perfetto contraltare alla cinese Cosco, operativa invece nei container e, più in generale, nella gestione dei terminal. Una simbiosi del genere può essere ripetuta, in formati diversi, in più porti. Logistica da una parte, commercio dall’altro: Ankara e Pechino ambiscono a creare una serie di enclavi commerciali da sfruttare al meglio per espandere le rispettive influenze nella regione.
I legami sino-turchi sono inoltre agevolati dall’atteggiamento di Ankara, solita sposare una geopolitica ambigua e aperta a più soluzioni, spesso tra loro contrastanti. Per Erdogan la Cina non rappresenta una minaccia, quanto piuttosto un partner fondamentale in grado di rifocillare l’economia nazionale con denari scintillanti. Ricordiamo che, a partire dal 2016, i due Paesi hanno messo nero su bianco dieci accordi nucleari dai contenuti più vari, dalla salute all’energia nucleare. Dal 2016 al 2019, inoltre, la Cina ha investito in Turchia ben 3 miliardi di dollari, e culla l’intenzione di raddoppiare tale somma. La BRI, poi, ha dato slancio a diversi progetti infrastrutturali: citiamo, ad esempio, la linea ferroviaria Kars-Tbilisi-Baku, l’acquisto cinese del 65% del terzo terminal più grande del Paese, Kumport, a Istanbul, e il rilancio, sempre per mano cinese, del ponte Yavuz Sultan Selim.
La questione turca e il Cremlino
Quello tra la Terza Roma e la Sublime Porta è un matrimonio di convenienza destinato a terminare in un tragico divorzio a causa delle innumerevoli contraddizioni alla sua base, a meno che le due parti non stabiliscano un modus convivendi incardinato sul mutuo rispetto e sull’inviolabilità di linee rosse e sfere d’influenza e, soprattutto, a meno che le diplomazie russa e cinese non riescano nello storico obiettivo di trascinare definitivamente a levante i turchi. Perché la Turchia è alla ricerca di emancipazione totale dall’attuale stato di succubanza geopolitica nei confronti dell’Occidente, e Russia e Cina potrebbero fare leva su tali ambizioni di autonomia strategica per inglobarla in quel progetto di maxi-integrazione continentale che è la “Grande Eurasia”.
L’incorporazione della Turchia nei piani egemonici dell’asse russo-cinese è fondamentale per una ragione molto semplice: fino a quando continuerà ad essere legata al blocco-civiltà occidentale, nonostante i proclami eurasiatistici di Recep Tayyip Erdogan, la Sublime Porta agirà in qualità di faccendiere e quinta colonna degli Stati Uniti nelle regioni Balcani, Mediterraneo, Medio Oriente, Caucaso meridionale e Asia centrale, dando da una parte ma togliendo dall’altra, flirtando con chiunque e camminando con il piede in più scarpe. E il Cremlino, in questo contesto nebuloso e insidioso, ha bisogno di cooperare con Ankara per una questione di realismo: non può trascurarne il peso crescente tra Mediterraneo e spazio postsovietico. Neanche vorrebbe, però, che la rinascita dell’impero ottomano sotto mentite spoglie conducesse ad un’entrata degli Stati Uniti in aree ad accesso limitato e protette dal filo spinato, quali sono i rimasugli del mondo russo nei Balcani, nel Mar Nero e nell’Asia centrale.
Diffidenti l’una dell’altra e separate da una storia di guerre, eppure obbligate a collaborare nell’ambito della multipolarizzazione del globo, Turchia e Russia collaborano a fatica, ma collaborano, e hanno mostrato e dimostrano in più occasioni – dalla Siria alla Libia, passando per l’affare S400 – le potenzialità del loro matrimonio di convenienza sui generis e antistorico. La transizione multipolare è il loro obiettivo e l’Occidente è un partner del quale si vorrebbero liberare, perciò Mosca ed Ankara dovranno trovare un modus convivendi – e l’ultima dovrà trovare un equilibro con Washington e levigare obbligatoriamente gli spigoli marcatamente russofobici del panturchismo che va promuovendo nello spazio postsovietico e all’interno del territorio russo – se realmente aspirano a dotare il sistema internazionale di nuove polarità.