Il Mali è uno dei Paesi del Sahel più strategici, ma anche dall’economia molto fragile e caratterizzato da una società molto fragile, provata da anni di guerra e di terrorismo. Ecco perché le proteste divampate in questo mese di giugno vengono viste con un certo interesse dalla comunità internazionale e dai governi vicini. È proprio nel Mali che si concentrano gli sforzi principali della lotta al jihadismo africano, qui lo scorso 7 giugno la Francia ha annunciato l’uccisione di Abdelmalek Droukdel, numero uno di Aqim, ossia Al Qaeda nel Magreb Islamico. Ed è sempre nel Mali che si concentra il grosso dell’operazione Barkhane, erede della missione avviata tra il 2012 ed il 2013 dalla Francia per permettere al governo di Bamako di riprendere il territorio del nord del Paese, lì dove erano stati creati veri e propri piccoli emirati islamici. Le proteste dell’ultimo mese, potrebbero quindi mettere a repentaglio il già fragile equilibrio politico del Mali.
Le proteste nel Mali
Da inizio giugno in molte città vengono organizzate diverse manifestazioni antigovernative. La situazione non è molto dissimile da quanto visto nella vicina Algeria lo scorso anno, quando migliaia di cittadini hanno protestato per chiedere il passo indietro dell’ex presidente Bouteflika. Si tratta infatti di proteste pacifiche in gran parte delle occasioni: da Bamako a Sikasso, passando anche per la storica e tormentata Tombouctou, numerosi manifestanti sono scesi in piazza con il fine di spingere verso le dimissioni il presidente Ibrahim Boubacar Keita. Quest’ultimo, eletto nel 2013 e rieletto nel 2018, è accusato di non aver ostacolato la corruzione, di non aver reso il Mali un Paese più sicuro nonostante la presenza di truppe straniere e, soprattutto, di non essere stato in grado di rilanciare un’economia in perenne affanno.
Il malcontento parte proprio da qui: il Mali non riesce ad uscire da una situazione di grave arretratezza, una povertà che oltre a costringere alla fame centinaia di famiglie non riesce a far risollevare l’intero territorio da un contesto di profonda inadeguatezza sotto il profilo dei servizi e delle infrastrutture. La popolazione, oltre a non sentirsi sicura a 7 anni dalla guerra combattuta contro il jihad ed ancora non terminata, non vede alcun miglioramento delle proprie condizioni di vita. Da qui una progressiva insofferenza adesso sfociata nelle tante proteste organizzate nell’ultimo mese.
L’Imam che aizza la folla
C’è soprattutto un giorno in cui migliaia di cittadini vengono chiamati a raccolta nelle piazze delle principali città: è quello del venerdì. E non è affatto un caso. Infatti, buona parte dei comizi e delle proteste sono organizzati dall’Imam più popolare del Mali, ossia Mahmoud Dicko. C’è lui dietro l’ultima ondata di manifestazioni che sta scuotendo il Paese africano. Dal pulpito delle sue moschee di Bamako riecheggiano poi in tutte le province maliane le denunce sulla corruzione diffusa tra le istituzioni, sulla povertà mai sconfitta dal governo e su una situazione definita sempre più drammatica. La popolazione ascolta e sente propri quei discorsi. E segue alla lettera tutti i proclami enunciati da Dicko nelle ultime settimane. Compresi quelli di non ricorrere alla violenza e di non far scivolare le proteste nel vortice dei disordini. Ed infatti, come detto, le manifestazioni per adesso sembrerebbero sotto controllo.
Chi è Mahmoud Dicko
L’impressione, anche di diversi analisti locali, è che il governo per il momento stia lasciando fare. A Bamako l’idea è che meglio canalizzare l’insofferenza sociale tramite i proclami lanciati dai pulpiti delle moschee da Dicko piuttosto che non controllare eventuali esplosioni di rabbia. Del resto l’imam non è poi così lontano dal potere. Già nel 2001 Mahmoud Dicko risulta essere a capo del Consiglio islamico del Mali, organo molto influente in un Paese dove il 95% della popolazione professa la religione musulmana. Per i vari presidenti che si sono succeduti nel corso degli ultimi vent’anni, l’imam rappresenta un’opportunità oppure una vera e propria spina nel fianco. L’attuale capo di Stato Keita ne sa qualcosa: nel 2013 e nel 2018 l’appoggio del Consiglio Islamico del Mali è stato decisivo per le sue vittorie elettorali, mentre adesso è il suo principale oppositore. Nel 2009 invece a fare i conti con Dicko è stato l’allora presidente Amadou Toumani Touré, il quale si è visto negare dal Consiglio islamico una legge che garantiva maggiori diritti alle donne.
Ed è proprio quest’ultimo aspetto ad essere maggiormente visto con sospetto, soprattutto all’estero. Dicko ha una formazione molto conservatrice, sviluppatasi soprattutto nei suoi anni di studio in Mauritania ed in Arabia Saudita. Nato nella regione di Tombouctou nel 1954, ha perfezionato i suoi studi nel regno wahhabita, da cui è nata probabilmente la sua linea rigida su molte questioni di carattere sociale. Occorre però anche specificare che Dicko non ha sposato in toto la rigida interpretazione del Corano osservata tra i wahhabiti. Nelle sue prese di posizione nel corso degli ultimi anni è emerso anche un elemento nazionalista che gli ha fatto appoggiare per ben due volte la candidatura di Keita. Inoltre, la visione di Dicko non è oscurantista rispetto al passato del suo Paese: non a caso, non ha appoggiato la distruzione di monumenti effettuata a Tombouctou negli anni in cui i jihadisti avevano preso il potere. In generale, Dicko ha sempre riconosciuto nelle religioni pre islamiche un elemento caratterizzante dell’identità del Mali e non ha mai negato il carattere secolare della Repubblica maliana.
I rapporti di Dicko con l’estremismo
Conservatore dunque, ma anche lontano dalle posizioni che vorrebbero trasformare il Mali in un emirato africano. Un dualismo solo apparentemente contraddittorio, frutto in realtà di una visione dell’Islam non allineata all’estremismo jihadista. Eppure, nel suo rapporto con i gruppi più integralisti, non sono mancate anche in questo caso delle ambiguità. Nel 2013 ha appoggiato l’intervento francese contro gli emirati che si erano costituiti nel nord del Paese, due anni più tardi però ha elogiato l’azione terroristica portata avanti al Radisson Hotel di Bamako: “Un intervento divino che ha punito l’omosessualità portata dall’occidente”, ha dichiarato in quell’occasione.
Ci sono quindi alcuni punti di contatto tra la sua ideologia e quella più radicale, seppur Dicko si è sempre mostrato contro l’uso della violenza. L’imam non appoggia i gruppi jihadisti, ma questi ultimi spesso hanno dimostrato di rispettarlo. Adesso il Mali e tutta la regione del Sahel si chiedono le intenzioni di Dicko: vuole realmente far arrivare alle dimissioni il presidente Keita? Lui stesso vorrà diventare il nuovo capo dello Stato? A prescindere da quanto accadrà in futuro, l’ascesa politica di un imam nel Mali non è certo un elemento da sottovalutare. E dimostra come, al di là delle singole posizioni promosse negli anni da Dicko, le idee più conservatrici stanno avanzando sempre di più in tutto il Sahel.