È impossibile leggere la crisi della penisola coreana senza comprendere il ruolo della Cina. Dall’inizio dell’escalation diplomatica e delle provocazioni del regime di Pyongyang, il governo di Pechino è stato tirato in ballo da tutti, in particolare dagli Stati Uniti, come unico Paese in grado di fermare la politica nucleare e missilistica di Kim Jong-un e unico governo ad avere le leve giuste per piegare la Corea del Nord a più miti consigli. Tuttavia, molto spesso, e con estrema facilità, si è letto o detto da più parti che la Corea del Nord sarebbe un alleato della Cina o che farebbe comodo al governo cinese. In realtà, questa lettura appare superficiale, o, quantomeno, non totalmente veritiera. Perché se è vero che la Cina ha avuto e continua ad avere interesse nel mantenimento del regime nordcoreano, anche come contrappeso alle alleanze statunitensi in Estremo Oriente, è anche vero che negli ultimi tempi, in particolare con l’ascesa di Kim Jong-un, la Corea del Nord si è rivelato un vicino decisamente scomodo per Pechino, e l’ultimo test nucleare dei pochi giorni fa ne è stata la dimostrazione più eloquente.
Bisogna partire proprio dall’ultimo test nordcoreano per capire, infatti, fino a che punto la Cina sia vittima più che complice del governo di Kim. Perché è opportuno ricordare che, nel momento in cui la Corea del Nord decideva di provocare il mondo con il test nucleare poligono di Punggye-ri, la Cina dava inizio al fondamentale incontro dei Brics a Xiamen che doveva essere il vertice internazionale per mostrare l’unione d’intenti dei Paesi emergenti e per promuovere la nuova visione geopolitica cinese incastonata nel progetto della Nuova Via della Seta. Per il governo di Xi Jinping era un’occasione unica per mostrare al mondo una Cina diversa, in grado di essere considerata non più come potenza economica a caccia di mercati, ma anche come potenza globale con capacità di leadership di un nuovo modello di sviluppo e di globalizzazione. Il test nucleare di Kim Jong-un è riuscito nel doppio intento di oscurare il vertice internazionale promosso da Pechino e, al contempo, di mostrare al mondo una Cina incapace di incidere sulle scelte di un governo come quello nordcoreano e incapace di garantire stabilità al mondo. In questo modo, il governo cinese non ha soltanto perso in capacità di leadership mondiale, ma ha anche perso l’immagine di potenza in grado di poter davvero fare qualcosa per modificare i piani di Kim Jong-un.
E questa coincidenza fra eventi internazionali cinesi e test missilistici nordcoreani non c’è stata solo in quest’ultimo mese. A marzo del 2017, Kim ha testato un missile balistico in concomitanza dell’incontro tra Tillerson e Xi Jinping. A maggio, durante il vertice internazionale di presentazione dell’One Belt One Road, mentre Pechino ospitava i leader mondiali per presentare il progetto geopolitico più importante degli ultimi decenni, Kim lanciava un altro missile. E proprio a maggio, da uno dei test missilistici nordcoreani, è arrivato forse il messaggio più pericoloso per la Cina: una telecamera posizionata sul vettore Pukguksong-2 puntava chiaramente verso ovest, inquadrando la Cina quasi fino alla città di Pechino. Per molti analisti, un messaggio di sfida di Kim nei confronti del governo di Xi Jinping.
Oltre al fatto di aver danneggiato l’immagine della Cina nel mondo, Kim ha poi ottenuto un ulteriore risultato negativo per Pechino, e cioè quello di aver accresciuto le tensioni in Asia orientale e aver reso possibile agli Stati Uniti l’avvio di un piano di militarizzazione dei partner asiatici dopo che per anni si era parlato di una graduale diminuzione dei reparti americani in Giappone e Corea del Sud. Quello che la Cina voleva ottenere in questi anni, ovvero il lento allontanamento delle forze armate Usa dal Pacifico occidentale, adesso appare sostanzialmente irraggiungibile. Al contrario, le minacce di Kim non fanno altro che rafforzare la possibilità che gli Usa decidano di rafforzare i propri contingenti all’estero e che Giappone e Corea del Sud spingano verso una crescita esponenziale delle proprie forze armate. E infine, sempre per ciò che riguarda i difficili rapporti fra Pechino e Washington, l’ultima provocazione di Pyongyang ha dato prova agli Stati Uniti che la Cina, in realtà, non abbia tutta questa capacità persuasiva nei confronti del governo nordcoreano, lasciando libero Trump di credere che la soluzione della crisi non passi per forza per le scelte della Cina e che dunque opzioni militari o estranee alle scelte di Pechino siano ancora attuabili.
Il fatto che la Cina si sia da tempo distanziata dalla Corea del Nord è confermato in particolare dal fatto che il governo cinese ha dato sostengo a tutte le sanzioni Onu imposte a Pyongyang, e ha da tempo attivato un piano di tagli alle importazioni dalla Corea. D’altro canto, va ricordato che Pechino si muove in modo estremamente cauto anche perché l’essere confinanti con il regime di Kim induce inevitabilmente a mostrare molta cautela. Qualsiasi scelta di attacco alla Corea del Nord, sia esso economico sia esso militare, ha delle conseguenze sul territorio cinese. Gli stessi test nucleari preoccupano Pechino per la possibilità che le radiazioni arrivino sul proprio territorio minacciando la popolazione al di qua del confine. Pertanto è chiaro che se Trump può mostrare i muscoli contro Kim perché ha un oceano a dividerli, stessa cosa non può fare Xi Jinping, che si trova nella delicata situazione di poter effettivamente chiudere ogni possibilità di sopravvivenza del governo nordcoreano – per esempio imponendo l’embargo su alimenti e petrolio – ma allo stesso tempo di subire qualsiasi tipo di ritorsione da parte del governo di Kim. Così come, in caso di conflitto fra Usa e Corea del Nord, sarebbe sicuramente la Cina ad essere il Pese costretto ad accogliere milioni di profughi e il rischio di vedere coinvolti suoi cittadini. La Cina ha molto da perdere in questa crisi, forse anche più della stessa Corea del Nord.