Il lancio del missile Hwasong-15 cambia di nuovo le carte in tavola nella crisi della penisola nordcoreana. Kim Jong-un, dopo due mesi di assoluto silenzio, è tornato a parlare. Lo ha fatto tramite il razzo più potente testato fino ad ora dall’esercito della Corea del Nord ed è un segnale che tutti hanno preso molto sul serio. A dimostrare la serietà e la gravità della situazione, sono state le parole del presidente Trump, anzi, soprattutto le parole non dette da Donald Trump. Se fino ad oggi il presidente Usa aveva sfoggiato una retorica tra il bellicista e il denigratorio nei confronti del leader nordcoreano, questa volta le parole sono state molto più accorte, dosate, quasi rispettose. “Ce ne occuperemo. È una situazione che gestiremo”, ha detto il presidente degli Stati Uniti, in un tono che ha dimostrato che qualcosa è cambiato nella percezione di quello che sta avvenendo in Corea. Il presidente Usa ha telefonato immediatamente dopo il test missilistico sia il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, sia il primo ministro giapponese, Shinzo Abe. I due leader asiatici, partner fondamentali della struttura americana nel Pacifico, si erano già detti concordi nel considerare Pyongyang “sponsor del terrorismo” e si sono detti molto preoccupati dall’ultima provocazione della Corea del Nord. Gli stessi servizi sudcoreani avevano recentemente informato il governo e la stampa del fatto che ritenessero ormai quasi completato il programma nucleare nordcoreano, tanto che si riteneva il 2018 l’anno della svolta di tutto il progetto della dinastia Kim. Con il test di ieri, la Corea del Nord ha dimostrato che, potenzialmente, può arrivare a colpire a una distanza di circa 8mila miglia. E, secondo quanto detto dal ministro della Difesa giapponese, Itsunori Onodera, ha confermato che il regime di Kim “potrebbe avere i mezzi per il rientro nell’atmosfera”: il punto più alto del programma missilistico della Corea del Nord, come ampiamente analizzato da Franco Iacch per la nostra testata.
Dal punto di vista politico, questo missile dimostra che la Corea del Nord ha raggiunto una capacità negoziale molto superiore a quanto si potesse credere. E non è un caso che la risposta della Cina a questo missile sia stata quella di “profonda preoccupazione”. Perché, come ha detto Cai Jiain della Fudan University al South China Morning Post, “ciò significa che la Corea del Nord è molto vicina ad avere reali capacità di attacco nucleare e deterrenza”. Insomma, la Corea del Nord potrebbe a questo punto entrare a forza, più che di diritto, nel tavolo delle potenze nucleari asiatiche. Un tavolo cui appartengono già tanti Stati, ma a cui nessuno voleva far arrivare il regime di Kim. Se per la Cina, la Corea del Nord è stata per anni un alleato scomodo ma utile, adesso rischia di trasformarsi in un vicino scomodo e basta, che può minacciare l’uso dell’atomica portando la tensione a livelli altissimi. E adesso potrebbe avere anche i vettori adeguati, premettendo che la miniaturizzazione della testata sembra ancora non sia stata raggiunta. Ma tanto basta, forse, per far scendere gli Stati Uniti a compromesso, e con essi Corea del Sud e Giappone. Un tavolo che la Cina teme in quanto sarebbe costretta ad accettare Pyongyang come potenza e non più come Stato da poter guidare, arrivando anche potenzialmente a dover assistere a un accordo fra Usa e Nord Corea.
Il governo cinese ha da tempo cercato di attivare ogni canale diplomatico sia con gli Stati Uniti e suoi partner, sia con la Corea del Nord, per giungere alla soluzione della crisi. Ma i segnali sono molto inquietanti. L’inviato di Pechino sembra non sia stato ricevuto dal dittatore nordcoreano, ed è stato considerato da tutti come un pessimo messaggio rivolto a Xi Jinping da parte di Kim. Pochi giorni prima del test missilistico, la Cina aveva chiuso il traffico aereo per Pyongyang e quello commerciale attraverso il ponte dell’Amicizia, sul fiume Yalu. Quasi a voler dimostrare di poter “soffocare” la ribellione della Corea del Nord. A conferma di questa crescente tensione al confine fra Corea del Nord e Cina, i soldati della 78a unità militare del comando settentrionale – con sede a Harbin, provincia di Heilongjiang, alla frontiera con la Corea del Nord – hanno condotto una serie di esercitazioni a est della Mongolia, sabato mattina. Le esercitazioni si sono svolte tra la neve e temperature di molti gradi sotto lo zero, con un focus particolare su scontri a fuoco tra unità, interferenze elettromagnetiche e ricognizioni aeree. Sono esercizi di routine, ma il fatto che arrivino quando è stato chiuso al traffico il ponte che rappresenta l’unica fonte di sostentamento della Corea del Nord, ha lasciato spazio a molti interrogati sul vero significato politico di queste manovre militari.