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Se ad un inglese si chiede con chi confini il Regno Unito, questi risponderà “con tutto il mondo” non per una sorta di globalismo d’accatto, ma perché culturalmente e storicamente ha ben presente l’importanza delle linee di comunicazione marittime nella vita di uno Stato. Per il mare passa ancora la stragrande maggioranza dei commerci e sul mare si intreccia ancora la maggior parte degli interessi politici che legano le nazioni. Lo sanno gli Stati Uniti, la talassocrazia per eccellenza che ha sostituito l’Inghilterra a partire dalla “Crisi di Suez” del 1956, e lo sanno anche la Russia e la Cina. Quest’ultima in particolare ha capito che per essere una potenza globale occorre essere costantemente presente sui mari con la propria flotta a garanzia delle proprie vitali linee di comunicazione e a copertura del proprio espansionismo, pertanto da qualche anno ha dato il via ad un imponente campagna di costruzioni navali per rimodernare la flotta e per dotarla di nuovi mezzi atti a mettere in pratica questa politica (portaerei, sommergibili atomici, navi anfibie ecc.).

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Una flotta moderna che si vuole dotare di capacità di proiezione “globale” deve però, forzatamente, acquisire un certo grado di interoperabilità che è vitale in caso di conflitto. In questo senso la Nato e gli Stati Uniti sono stati antesignani di questa dottrina che vedeva le flotte dell’Alleanza Atlantica (o dell’Anzus) quasi sempre in mare per addestrarsi alla capacità di coordinare i propri sforzi a seconda dei diversi obiettivi strategici. La Cina (e la Russia) ha ben compreso questa lezione e la sta mettendo in pratica costantemente da qualche anno, cercando quanto più possibile di partecipare ad esercitazioni navali congiunte con quei Paesi che più sono in linea con la propria politica internazionale.  Mosca quindi, soprattutto negli ultimi anni, è diventata il naturale alleato per questo tipo di sforzo militare.

La prima esercitazione navale congiunta russo cinese è datata agosto 2005 quando si tenne “Peace Mission 2005” iniziata nelle acque del Mar del Giappone al largo di Vladivostok e terminata al largo della penisola di Shandong. Questa manovra, a cui parteciparono circa 10 mila uomini delle due nazioni, è quella che segna la svolta nei rapporti tra Mosca e Pechino, sebbene osservatori militari cinesi siano stati spesso presenti sulle unità russe durante le manovre della Flotta Russa (alcune fonti riportano la presenza di ufficiali cinesi anche durante la tragedia del sommergibile “Kursk”). Dopo qualche anno di relativa “calma”, in cui la Cina ha dato impulso alla propria cantieristica navale, ecco che si assiste alle manovre congiunte denominate “Joint Sea”. L’anno è il 2012 è l’esercitazione vede coinvolte 25 unità navali delle due nazioni, 13 velivoli, 9 elicotteri e due contingenti di forze speciali che si sono addestrati nelle acque prospicienti il porto cinese di Qingdao.

A seguire altre 2 edizioni si sono tenute sempre nelle acque dell’estremo oriente tra il Mar del Giappone ed il Mar Cinese Orientale, sino al 2015, quando “Joint Sea” per la prima volta si divide in due fasi temporali su due scacchieri diversi e molto lontani tra di loro: la prima parte è stata infatti messa in atto nel Mar Mediterraneo con la presenza di 9 unità di superficie delle due Marine avendo come obiettivo il rafforzamento della capacità congiunta di affrontare le minacce alla sicurezza della navigazione. La scelta del teatro dell’esercitazione non è ovviamente un caso: è l’anno del culmine della crisi siriana e da lì a pochi mesi (l’esercitazione si tenne a maggio) Mosca inviò uomini e mezzi a supporto di Damasco nella lotta contro l’Isis.

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Veniamo quindi al 2017. Quest’anno “Joint Sea” ha visto una prima assoluta per la Cina. L’esercitazione, la cui seconda fase si è appena conclusa nel Mar del Giappone ed in particolare nella Baia di Pietro il Grande, ha infatti avuto come teatro iniziale il Mar Baltico. Il 21 luglio nel porto di Kaliningrad, capitale dell’enclave russa e sede della Flotta del Baltico, hanno attraccato il cacciatorpediniere classe Type 052D “Hefei”, la fregata classe Type 054A “Yuncheng” e la rifornitrice di squadra classe Type 903A “Luomahu”, ultime creazioni della cantieristica navale cinese; in totale alla prima parte di “Joint Sea-2017” hanno partecipato 12 unità, una decina di aerei ed alcuni elicotteri. Mai si erano viste, in quelle acque, navi da guerra cinesi. Il fatto ha creato apprensione nei Paesi rivieraschi, anche in quelli non palesemente schierati nell’Alleanza Atlantica come la Finlandia e la Svezia; possiamo quindi capire l’esigenza di Stoccolma di “mostrare i muscoli” come mai aveva fatto prima con la più grande esercitazione militare che si ricordi da 20 anni a questa parte.  

La seconda parte dell’esercitazione, come dicevamo, si è conclusa il 25 settembre nelle acque davanti a Vladivostok ed ha visto parteciparvi una maggiore presenza di naviglio cinese: tra le varie unità ricordiamo il cacciatorpediniere della classe Type 051C “Shijiazhuang”, la fregata lanciamissili della classe Type 054A “Daqing” ed il rifornitore di squadra “Dongpinghu” sempre della classe Type 903A.

Al di là delle mere considerazioni tecniche sulle finalità dell’esercitazione, in parte già enucleate nel corso di questa trattazione, “Joint Sea” di quest’anno manda un messaggio chiaro e forte agli Usa e all’Europa: la Cina vuole il suo posto sul palcoscenico delle potenze globali e questa “alleanza”, a volte scomoda, con la Russia le permette di instaurare un meccanismo tipo “do ut des” in linea con la sua politica di espansione marittima: l’aiuto cinese nel Baltico, tornato ad essere un teatro di crisi per Mosca, viene pareggiato da un possibile aiuto alla politica espansionistica cinese nel Mar Cinese Meridionale e Orientale (isole Spratly e Senkaku). Non bisogna poi dimenticare che questo nuovo “asse” tra Mosca e Pechino è stato naturalmente rafforzato anche e soprattutto dalle sanzioni elevate da Stati Uniti ed Europa: Mosca, trovando chiuso il naturale mercato europeo, è tornata spontaneamente a guardare ad oriente. Parallelamente la stessa Cina ora può vedere nella Russia un partner commerciale privilegiato per la nuova “Via della Seta” andando così a erodere la concorrenza commerciale nippo-americana in estremo oriente; per farlo però le serve assicurarsi la continuità delle linee di navigazione che passano per dei “gap” naturali che potrebbero essere chiusi e così strangolare il Drago (Bab el-Mandeb, Malacca), da qui l’esigenza di Pechino di rafforzare la propria flotta e di stabilire dei “capisaldi” su terra lungo la rotta che dal Mar Cinese Orientale arriva sino al Mediterraneo, e la nuova base aperta a Gibuti rientra in questa prospettiva.

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