Il Consiglio europeo ha designato il ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea. L’annuncio è stato dato dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che ha reso noto l’accordo per la presidenza della Commissione, per il nuovo leader del Consiglio europeo (il premier belga Charles Michel), per la guida della Banca centrale europea (Christine Lagarde) e per l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la Sicurezza (lo spagnolo Josep Borrell). È questa la nuova Europa che risulta dalle trattative di questi giorni. Ed è un’Europa che ha chiaramente due vincitori: Angela Merkel e Donald Tusk. E in parte Emmanuel Macron, che piazza una francese alla guida della Bce.

Perché è chiaro che la linea della Cancelliera abbia avuto la meglio, mostrando ancora una volta che è a Berlino il cuore pulsante dell’Unione europea. Ma è anche chiaro che il presidente uscente del Consiglio europeo abbia avuto un ruolo preponderante nella definizione di queste nomine, dove tutto sembra essere orientato al trovare un accordo dopo la rottura sul nome di Frans Tiemmermans, con Visegrad e l’Italia ad aver fatto blocco per fermare le mosse franco-tedesche all’interno del Parlamento europeo. E il nostro Paese adesso appare soddisfatto, almeno secondo le prime dichiarazioni arrivate da Bruxelles e quelle di Matteo Salvini, che ha commentato: “A prescindere dai nomi, l’importante è che in Europa cambino le regole, a partire da immigrazione, taglio delle tasse e crescita economica. E su questa battaglia l’Italia sarà finalmente protagonista”.

La domanda sorge spontanea: Roma si può definire soddisfatta di quanto deciso a Bruxelles? La risposta non è certo semplice. Ed è chiaro che da Palazzo Chigi non possano cantare vittoria su tutta la linea. ma è possibile trovare un filo conduttore che lega questa fase di negoziati e il ruolo dell’Italia, con Giuseppe Conte che ha scelto una linea molto dura nei confronti dell’asse franco-tedesco ma non avversa alla Germania in quanto tale. Può sembrare un paradosso: ma così non è. L’Italia ha scelto di sostenere un candidato tedesco, è vero. Ma questa candidatura (ammesso che venga approvata dal parlamento) è anche il frutto del “no” di Roma all’asse tra Merkel e Emmanuel Macron sul nome del socialista Tiemmermas. È stato proprio questo no a far cadere “l’inciucio” a Bruxelles in cui il Partito socialista voleva arrivare a guidare la Commissione senza rappresentare la maggioranza dell’Europarlamento. E il fatto che l’Italia abbia detto “sì” a von der Leyen indica che ci sia la volontà di dialogare con la Germania ma che questo non si traduce in un’accettazione dell’asse tra Francia e Germania “a scatola chiusa”. Palazzo Chigi è perfettamente consapevole che le due potenze rappresentino i più forti in Europa. Ma questo non deve essere l’alibi perché i due governi decidano in completa autonomia chi guida l’Europa. Ed è per questo che il voto di oggi rappresenta in ogni caso il frutto del primo vero “no” di Roma in Europa: si è voluto chiedere, insieme a Visegrad, che la presidenza della Commissione fosse scelta in concertazione e non come frutto di accordi fra eurogruppi. E così è stato. E dal momento che l’Italia non ha partiti di governo nei gruppi parlamentari di potere, è comunque una vittoria aver scalfito i sistemi dello Spitzenkandidadt.

Dall’altro lato, l’ok dell’Italia è anche la conseguenza di una fase in cui il governo giallo-verde non può certo dirsi svincolato da scelte tattiche. In primis, c’è un problema di natura strategica: i nostri alleati, oggi, sono i Paesi dell’Europa orientale. E Ursula von der Leyen piace a Visegrad (Viktor Orban ha già dato il suo placet) che, insieme a nostro Paese, rappresenta il polo europeo con cui è impossibile non dialogare. Ed è chiaro che per essere eletta avrà bisogno del sostegno dei sovranisti al di là del Patrtito popolare europeo di cui fa parte. Dall’altro lato, von der Leyen piace alla Nato, che in questo momento è l’alleanza che rappresenta il vero sistema internazionale a cui fa riferimento l’Italia, anche più della stessa Ue. Il ministro tedesco ha ottimi contatti con la Bruxelles atlantica, tanto che qualcuno aveva parlato di lei come erede di Jens Stoltenberg alla guida dell’Alleanza. E se è vero che se piace alla Nato non può piacere alla Russia, con cui l’Italia intrattiene ottime relazioni, è altrettanto vero che il governo italiano in questi tempi preferisce avere sponde negli Stati Uniti. Il ministro tedesco rappresenta quindi una rinnovata partnership con la Germania, l’asse fra Italia e Visegrad, il sostegno a un candidato alfiere della Nato e la volontà di avere un nome che non fosse scelto dai maggiori gruppi dell’Europarlamento senza l’intervento dei leader europei che non fanno parte di quel sistema anti-populisti e anti-sovranisti.

Infine, un ultimo punto: che è il problema deficit. L’Italia doveva fare di tutto per trovare un patto con la Germania anche per evitare che Berlino imponga una linea estremamente dura nei confronti dei conti pubblici italiani e della manovra, così come sul fronte immigrazione. Deficit e sicurezza sono i pilastri dell’attuale corso giallo-verde. E l’accordo sulla presidenza della Commissione europea potrebbe essere il frutto di un negoziato inevitabile: salvare l’Italia dall’infrazione e evitare uno scontro sui migranti concedendo alla Merkel il suo commissario. Era questa la speranza di Conte, era questo il piano di Tusk, ed è questo, forse, il frutto di un negoziato che nasce comunque da una condizione di handicap dell’Italia: non siamo liberi di scegliere. Potevamo però fare il possibile per evitare che i leader Ue scegliessero senza di noi. E così è stato. Siamo legati a un filo sottilissimo: e forse l’ok alla von der Leyen servirà anche a escludere l’infrazione. Non una vittoria, ma nemmeno una sconfitta. È l’accettazione di una realtà in cui Roma ha provato a fare il possibile. E il governo ha avuto garanzie su un futuro commissario economico di peso.