Tempi difficile per l’Italia, che mai come questa volta appare così in balia degli eventi, specialmente in un’area fondamentale come quella del Mediterraneo (in particolare in Libia). Da una parte Luigi Di Maio vola al Cairo per incontrare i rappresentanti di Francia, Egitto, Cipro e Grecia e si rifiuta di firmare l’accordo finale sulla Libia per i toni troppo duri nei confronti della strategia turca nel Paese e nei confronti di Fayez al Serraj. Dall’altro lato Giuseppe Conte vede Khalifa Haftar a Roma e, una volta incontrato il generale, si ritrova tra le mani la rabbia di Tripoli, a tal punto che Serraj diserta l’incontro di Palazzo Chigi. Mossa a dir poco giustificabile da parte del premier libico, visto che il presidente del Consiglio italiano ha deciso di incontrare (senza farlo presente, pare, a Tripoli) colui che sta assediando la capitale dell’alleato italiano in Libia. Ma per l’Italia adesso la questione è particolarmente seria. L’ira di Serraj non è priva di conseguenze. E il fatto che Di Maio, dall’altra parte del Mediterraneo, cerchi di tutelare gli interessi della partnership con il governo riconosciuto porta a una sola domanda: da che parte sta l’Italia? Perché è chiaro che qualcosa non torna. Nella migliore delle ipotesi l’Italia sta conducendo una partita fallimentare. Nella peggiore, Farnesina e Palazzo Chigi non collaborano e i servizi segreti, insieme alla Difesa, si trovano a gestire un dossier altamente bollente e senza una vera strategia. Forse neanche doppia: ma proprio inesistente. E Conte evidentemente ha deciso di dare il suo imprinting agli Esteri scalzando, di fatto, il suo capo politico pentastellato.
La questione per l’Italia non più se supportare solo Serraj contro Haftar: perché ormai non siamo più all’inizio della guerra. La domanda adesso per l’Italia è come salvare la faccia tradendo Serraj e riposizionandosi con il generale della Cirenaica. Perché è del tutto evidente che i piani di legarsi solo a Tripoli sono falliti, la Turchia ci ha scalzato mentre i nostri partner migliori e i nostri alleati guardano ormai tutti al generale che viene da Est. Conte lo sa: perché in questi mesi da premier ha partecipato agli incontri internazionali, ha ospitato (con pochi risultati) la Conferenza di Palermo, e comprende perfettamente che la ruota sta girando. E che l’Italia rischia di essere tagliata fuori.
Il premier ha visto Haftar perché ormai è impossibile non trattare con un uomo che in questi anni ha ottenuto prima l’appoggio delle potenze del Golfo Persico (con cui intrecciamo rapporti fondamentali nel settore petrolifero), poi con l’Egitto, con cui abbiamo una partnership politica e commerciale fragile quanto necessaria, poi con Francia e Russia, che sostengono le forze dell’Esercito nazionale libico sul campo. Infine, in questi ultimi mesi, e con l’avanzata dei tentacoli di Recep Tayyip Erdogan a Tripoli, Haftar ha incassato anche il sostegno greco e quello di Cipro, nostri alleati fondamentali nella sfida per il gas del Mediterraneo orientale insieme a Israele che, con gli agenti del Mossad, da tempo opera dietro le linee dell’Enl. Esercito che piace anche a Donald Trump che non ha mai disdegnato un occhio verso Bengasi.
Se a questo allineamento internazionale verso Haftar (mai realmente condannato dalla comunità internazionale nonostante stia assediando Tripoli contro un governo riconosciuto a livello formale da tutti) si aggiunge l’apertura totale di credito verso Erdogan da parte di Serraj, si comprende perché Conte abbia deciso di incontrare il generale. Del resto Haftar, con il sostegno delle varie potenze regionali e internazionali, ha ormai di fatto reso evidente al mondo che il futuro della Libia passa attraverso il suo assedio. Mentre Serraj, ormai isolato a Tripoli, ha un solo alleato, la Turchia, che oltre a sfidare l’Italia nei fondali di Cipro per il gas, rappresenta anche un pericolo per l’Italia sul fronte della lotta al terrorismo internazionale.
Il problema è che l’Italia fino a questo momento ha supportato quasi esclusivamente Serraj .E adesso siamo nella particolare situazione per cui sosteniamo ufficialmente Tripoli, dialoghiamo con Haftar, condanniamo l’ingresso di Erdogan a Tripoli ma – ecco l’ultima mossa – Di Maio va al Cairo e non vuole che l’Europa condanni eccessivamente la Turchia. Ora, sembra alquanto difficile credere che Conte fosse ignaro del fatto che incontrare come interlocutore per la Libia l’uomo che assedia Tripoli non sia una mossa perfettamente coerente. Ma quello che sorprende è Di Maio che rifiuta la bozza al Cairo perché troppo anti-turca quando è lì per vedere in blocco coloro che di fatto sostengono Bengasi contro l’avvento della Turchia in Libia. Si potrebbe parlare di un doppio forno di antica (e tutta italiana) memoria. Ma sembra difficile credere nel miracolo: più plausibile che Roma sia finita in un vicolo cieco da cui non sa più come uscire senza fare una figuraccia in mondovisione. Di certo la Libia è ormai perduta: ma i nostri militari sul campo e i nostri interessi energetici impongono una politica estera meno figlia di caso e della necessità. Il limite tra giocare su due campi e essere schizofrenici è labile. E mentre Haftar ci considera i possibili futuri partner meno affidabili, Serraj ci considera non troppo lontani da dei traditori. Conte e Di Maio continuano a chiedere aiuto alle altre potenze, parlano di decisioni europee, chiamano Ankara, Mosca e Washington. Ma la realtà è che prima di tutto dovrebbero telefonarsi tra Palazzo Chigi e Farnesina.